Qualche giorno fa ho esaudito il desiderio dei miei figli: li ho portati in un mega centro commerciale di Roma per assistere all’incontro con uno dei beniamini del momento. Uno youtuber, un ragazzino poco più grande di loro che ha racimolato una fama enorme nel commentare i videogames con cui passa il tempo. Di fronte a certi spettacoli della realtà ci si deve passare, ogni racconto rischia di essere parziale rispetto allo stordimento complessivo. E di stordimento, quasi capogiro, si è trattato, quando ho visto di fronte a me non meno di duemila ragazzini tra gli 8 e i 13 anni in adorazione permanente di fronte al loro mito.
Non giudico le passioni degli altri, tantomeno mi pongo di fronte a quelli dei miei figli con la classica posizione dell’adulto che non può né vuole mettersi in panni non propri. Quello che mi ha colpito profondamente è altro, è la relazione, il rapporto tra ognuno di quei ragazzi e l’oggetto, lo youtuber, il motivo che ci aveva condotto lì.
A partire dai miei figli, tutti avevano tra i loro occhi e l’idolo un diaframma, un oggetto che, tecnicamente, impallava la visione. Il classico telefonino con cui filmare ogni momento. Vederne uno è oramai familiare a tutti, ma assistere a duemila sguardi che si vietano di guardare, preferendo delegare al telefono la vista, è stata un’esperienza illuminante, da fare almeno una volta nella vita. Per provare a capire meglio, non altro. I nostri figli non guardano. Questa affermazione non ha nulla di teorico, filosofico. Non guardano nel concreto. Affidano la loro vista a un display, fanno guardare lui. Questo è quello che, per lavoro, fanno di solito i cameraman, i macchinisti, tanto è vero che loro non partecipano all’evento che riprendono, non sono lì per goderselo. Loro stanno lì per lavorare. Perché affidare la vista a una macchina rende parziale, scomoda lafruizione dell’evento nel suo complesso. Perché madre natura ci ha dotato di due lenti meravigliose, in alta definizione, che ci permettono di guardare tutto al meglio, senza bisogno di altro.
Ma i nostri figli non la pensano così. Per loro delegare allo schermo del telefono, o del tablet, amplifica il godimento complessivo, anche se concretamente, meccanicamente, non può essere così. Diciamo che il maggior piacere non deriva tanto dalla partecipazione in sé, ma da tutta una serie di concause che dall’evento si dipanano. I nostri figli, più che al piacere diretto, pensano a raccontare agli altri la propria esperienza, è lì il vero piacere. È nel sottolineare la loro presenza: loro hanno vissuto, anche se non hanno gustato veramente. Ma ci tengono a dirlo al loro mondo più di ogni altra cosa.
Non guardare con attenzione, appassionatamente, non solo non ci fa godere appieno l’evento cui stiamo partecipando. Scatena anche altre reazioni, peggiori, molto peggiori del punto iniziale. Perché non guardare significa non accogliere pienamente quello che sta vivendo davanti ai nostri occhi. Senza un’accoglienza piena, totale, non permettiamo alla nostra mente e al nostro cuore di lavorare al massimo della loro capacità. Ma c’è qualcosa di ancora più drammatico, e pericoloso.
I nostri figli nell’affidare il proprio sguardo al digitale gli consegnano anche quello che parte dall’esperienza diretta per poi sedimentarsi nel profondo, sino a diventare un punto sostanziale della nostra vita e della nostra identità. Il ricordo. La memoria. La vera condivisione che l’uomo fa del proprio vissuto, il modo con cui mettiamo la nostra vita al servizio degli altri, presenti e futuri, affinché la nostra esperienza continui a parlare. E che non può essere sostituito da una memory card.