A fine 2015 si è attirata l’attenzione, proprio da queste colonne (Avvenire 11 dicembre 2015), sul sorprendente incremento del numero di morti che andava concretizzandosi nel corso dell’anno, fornendo anticipazioni su una realtà allarmante che avrebbe poi trovato conferma ufficiale nel bilancio demografico diffuso dall’Istat all’inizio del 2016. 'Attenti ai morti', titolava il fondo di allora, e chiudeva invitando a una riflessione sulle cause dell’inatteso picco di mortalità sia la comunità scientifica, sia il mondo della politica, della pubblica amministrazione e del welfare. «Diamo ascolto a questo rialzo, accogliendolo come evento straordinario» – si scriveva allora – «perché vorremmo tanto che restasse tale».
A distanza di due anni, e alla luce dei nuovi dati che vanno emergendo, non ci sembra tuttavia di poter affermare che quel nostro auspicio abbia avuto realmente seguito. Dopo aver assistito a un 2016 caratterizzato da un confortante ribasso del numero dei decessi, ma semplicemente per via di quello che gli esperti definiscono un 'rimbalzo tecnico' – dopo una stagione in cui cadono in abbondanza le foglie più secche, l’albero ne ha meno da perdere nella stagione successiva – ecco che il rialzo della mortalità si ripresenta puntualmente. Dalle statistiche dei morti nei primi sette mesi del 2017 (secondo quanto già disponibile da fonte Istat) prende corpo la convinzione che l’anno che sta per concludersi ci chiederà ragione del non aver sufficientemente affrontato quei segnali di debolezza, già evidenti due anni fa, relativi a un sistema sanitario che tende sempre più a far pagare il prezzo della sfida sulla sostenibilità dei costi soprattutto a chi è più fragile, economicamente e sul fronte delle reti sociali e familiari.
Tra gennaio e luglio del corrente anno le statistiche segnalano 389.133 decessi, un valore che supera di 28.174 unità quanto registrato nei primi sette mesi del 2016. Su base annua, qualora l’aumento sin qui osservato (+8%) dovesse trovare conferma nel bilancio demografico finale, in tutto il 2017 si conterebbero 663.284 morti, con un incremento di ben 48 mila casi rispetto allo scorso anno e circa 16 mila in più rispetto al dato del 2015, a suo tempo indicato come il valore più alto mai riscontrato dal secondo dopoguerra. Tra l’altro, si tratta di un livello di mortalità che, combinandosi con l’ulteriore verosimile caduta del numero di nati (stimati in circa 4 mila in meno rispetto al record di minimo dello scorso anno), porterebbe l’Italia ad avere nel 2017 un saldo naturale negativo – più morti che nati – che giunge a sfiorare la soglia simbolica delle 200 mila unità.
È ben vero che nel determinare la crescita dei decessi gioca un ruolo importante il continuo invecchiamento demografico, tuttavia valutando nel 2017 l’ipotetico aumento del numero di morti dovuto al solo cambiamento nella struttura per sesso ed età della popolazione si arriva a spiegarne poco meno della metà (circa 21 mila casi). Che dire degli altri 27 mila in più? D’altra parte, se è indubbio che negli ultimi anni si è assistito a un generale miglioramento dello stato di salute della popolazione italiana – con un aumento dell’aspettativa di vita, una minor incidenza della morbosità e un impatto positivo sulla qualità degli anni vissuti – è anche vero che non tutti i cittadini hanno beneficiato e beneficiano tuttora allo stesso modo di questi progressi. Continuano infatti a persistere importanti differenze in termini di salute e di mortalità entro i diversi gruppi sociali. Mentre chi dispone di buone condizioni economiche, possiede un elevato livello di istruzione, risiede in aree non deprivate si caratterizza per un profilo generalmente più sano e vede ridursi, anche nelle età più avanzate, il rischio di morte, sul fronte opposto si collocano milioni di soggetti che vivono in condizioni di fragilità. Una fragilità che va spesso formandosi e accentuandosi col progredire dell’età e che, se non adeguatamente contrastata, finisce col risultare letale.
In ultima analisi, si ha l’impressione che i 27 mila morti in più – quelli non giustificabili con l’invecchiamento della popolazione – contabilizzati nel corso del 2017, siano la logica conseguenza di un atteggiamento e di una cultura (anche politica) distratta dall’illusione che sul piano sanitario tutto possa andare sempre e comunque nel segno del progresso. Ma il picco di mortalità del 2015 non è stato un fatto episodico. È stato solo un primo segnale, inascoltato, del nuovo corso di una sanità alle prese con la crescente difficoltà nel sostenere, purtroppo con risorse limitate, una popolazione sempre più anziana, entro cui i soggetti fragili si riformano instancabilmente. I dati statistici del 2017 confermano l’avvio di una sfida impegnativa e dall’esito incerto. Una sfida che potremo vincere solo chiamando all’appello il contributo di tutte le componenti della nostra società e solo se sapremo dare priorità e valore al principio e agli attori della solidarietà