Un detenuto a Terni, condannato all’ergastolo, ha chiesto di poter ricevere qualche libro. La direzione del carcere ha detto no. Il detenuto ha sporto reclamo. Da lì è partita una questione di legittimità diretta alla Corte costituzionale. La Corte costituzionale ha definito la questione «non fondata». E così, per ora, i carcerati al 41bis non potranno né ricevere né spedire libri. La condanna al 41bis è anche un addio ai libri. È cosa buona? È cosa giusta? Andiamoci piano, il rifiuto di dare-ricevere libri per il 41bis ha le sue ragioni. Con i libri passano messaggi di ogni tipo, suggerimenti, ordini, informazioni, con scritture o sottolineature. Il 41 bis è più sicuro con l’entrata-uscita di libri o senza? Senza, dice la Consulta. E ha ragione. La questione posta alla Consulta faceva riferimento ad alcuni princìpi della Costituzione che stabiliscono per ognuno il diritto all’istruzione e il diritto a un trattamento umano e non degradante. Il diritto all’istruzione, all’apprendimento, alla conoscenza è da intendersi cessato se l’uomo va in carcere? Certamente no. Se è in fin di vita? Certamente no. Tutti, quando facciamo una pausa nella vita, per esempio andiamo all’ospedale, ci portiamo dietro dei libri. Infelice colui che non lo fa.
Ci sono perfino dei libri (sto per dire qualcosa di eccessivo, e se non sono capito è colpa mia, chiedo scusa), ci sono dei libri che io leggo 'solo' quando sto male, ho la febbre, sto a letto o vado in ospedale. Libri che amo moltissimo. A volte non mi dispiace (ecco la cosa eccessiva) andare in ospedale, perché così posso riprendere in mano quei libri. Uno è 'La Città di Dio' di Agostino. Ricordo quando mi fu regalato. Andavo in stazione a prenotare un rapido per il giorno dopo, in bicicletta, una vecchietta cieca mi taglia la strada, cado e mi rompo la punta della tibia. Ricovero. In ospedale gli amici mi portano quel libro appena stampato da Einaudi in edizione sontuosa. Roma è distrutta dai barbari, la fonte della civiltà sul mondo si spegne, Agostino si chiede che senso ha lavorare, studiare, scrivere, combattere, morire, se poi la barbarie vince. E risponde. Quella era la prima Roma, la nostra.
L’editore Einaudi, comunista dichiarato, tradusse quell’opera quando moriva l’impero comunista: era la fine di Mosca capitale dell’impero, e Mosca era un’altra Roma, nuova madre e maestra dell’umanità. Leggendo quel libro in ospedale, sentivo la febbre salire più per la lettura che per la frattura. L’incidente che m’aveva provocato la frattura era ampiamente compensato da quella lettura. Che senso avrebbe privare gli ergastolani di un incontro che potrebbe correggere la colpa che li ha fatti finire in carcere? Ma il problema non è che leggano i libri, il problema è che li ricevano. Da chi? E cosa c’è dentro? Da una parte c’è il diritto del carcerato a leggere, dall’altra c’è il diritto di tutti noi all’efficacia del 41bis. E allora siamo al problema: per essere efficace, il 41bis deve equivalere a una morte civile. È un vecchio problema, se sia più crudele l’ergastolo o la morte. Cioè: se l’ergastolo non sia in realtà una 'morte lunga'.
Mi torna sempre in mente un film argentino bellissimo e crudele, Il segreto dei suoi occhi, in cui un uomo si vendica di un altro uomo, che gli ha ucciso la compagna, chiudendolo in un suo ergastolo privato, nella boscaglia, senza parlargli mai. Il prigioniero impazzisce per la mancanza di parole e supplica di essere ucciso. Dunque: morire è meno crudele che perdere le parole. Adesso nel nostro 41bis i condannati perdono le parole scritte, i libri. Non possono chiederli, non possono riceverli, non possono passarli. Eppure, essenzialmente, i libri sono scritti proprio per questo: sono messaggi che mandiamo ai nostri fratelli umani per dire loro qualcosa d’importante, di estremo, di riassuntivo, di conclusivo. Se il condannato alla morte lunga vuol leggere un libro prima di morire, bisogna trovare il modo di farglielo leggere. Il libro è più libro se viene letto anche al 41bis.