“Lolotte e Werther”, quadro ispirato a “I dolori del giovane Werther”. Il romanzo epistolare fu pubblicato nel 1774. Il suo impatto sui giovani fu tale che si pensa abbia prodotto i primi casi di suicidio per imitazione - archivio
Da bambino avevo un libro sul Vangelo di Luca, tutto a riquadri illustrati. Mi affascinava, l’ho letto più volte. Mi colpivano molto in particolare le parabole e, tra questa, quella del seminatore, che, devo confessarlo, non mi convinceva granché. Certo, alla fine il terreno buono produce cento volte tanto, la Parola porta frutto, però quanta fatica. E tutto quel seme sprecato sulla strada, sul terreno roccioso, tra i rovi? Pensavo che il seminatore fosse poco oculato, disattento. Quando sono diventato prof, ho capito che il seminatore dovevo essere io. A insegnarmelo è stato Umberto, un allievo di terza istituto tecnico, la classe più difficile che abbia mai avuto.
Ero al mio primo anno da docente. I ragazzi, tutti maschi, tutti alleati tra loro, avevano fiutato la mia paura fin dal primo giorno in cui ero entrato in classe e, ovviamente, ne avevano approfittato. Non mi rispettavano, mi prendevano in giro di continuo, non riconoscevano il mio ruolo. Alla fine, esasperato, mi ridussi a contare il numero di giorni che mancavano alla fine della scuola, quando la supplenza sarebbe terminata: li depennavo dal calendario come un carcerato, uno dopo l’altro. Il più spietato di tutti era Umberto: privo di interesse, mago della bigiata, sempre impreparato. Una volta, durante una verifica, era stato sorpreso con dei bigliettini e, per togliere di mezzo le prove del suo misfatto, se li era mangiati davanti a tutti, come fanno le spie nei film, suscitando una ilarità tale nella classe che era stato impossibile concludere la prova.
Proprio Umberto fu il protagonista assoluto della prima lezione della mia vita sulla Divina Commedia. La mattina mi ero svegliato entusiasta: avrei dovuto raccontare il ventiseiesimo canto dell’Inferno, quello di Ulisse, uno dei brani più belli mai scritti nella storia dell’umanità. Me lo ripetevo spesso a memoria; a volte lo recitavo da solo, lasciandomi prendere dallo splendore dei versi. Ero sicurissimo che Dante avrebbe scalfito un pochino l’indifferenza anche di quella terza, perché il sommo poeta ha un tocco magico che non può lasciare indifferenti. In effetti fu così, almeno un pochino. Ma prima ci fu lo show di Umberto. Entrato in classe, decisi di improvvisare per spingere i ragazzi a mettersi in gioco. Avendo in mente il grande viaggio che tutta la vita dell’Ulisse dantesco era stata, quel suo inseguire «virtute e canoscenza» fino all’estremo orizzonte, chiesi d’impulso: «Qual è, secondo voi, il senso della vita?».
Silenzio assoluto. La paura di esporsi davanti agli altri aveva fatto il miracolo: aveva zittito quella classe perennemente agitata. Nel silenzio però spiccava una mano alzata con decisione, quella di Umberto. Era così serio che non sospettai nulla. «Dimmi, Umberto». «Secondo me aveva ragione mio nonno, che diceva che la vita è come la scala di un pollaio». La scala di un pollaio? Non l’avevo proprio mai sentita. Non capivo il paragone. Ma, essendo molto legato a mio nonno, pensavo a tutti i nonni come a degli anziani saggi: mi immaginai, nonostante le apparenze, qualcosa di inatteso, di illuminante. «In che senso, scusa?», chiesi. Umberto, paziente, ripeté e completò il modo di dire del suo avo: «La vita è come la scala di un pollaio: corta e piena di merda». Risate. Sipario sulla saggezza degli antenati. Fine della discussione.
Ci rimasi male, ovviamente. Non tanto per l’infelice uscita di Umberto, ma per ciò che nascondeva: il nulla. Un cinismo pazzesco, una visione senza speranza, un pessimismo privo di prospettive. La vita fa schifo ed è breve, punto. Possibile che un sedicenne non avesse null’altro da dire? L’anno successivo non fui più prof di quella classe. Persi di vista tutti gli allievi. Passarono anni. In una calda sera di luglio, quando ormai avevo dimenticato Umberto e la scala del pollaio, un amico mi invitò a una mostra dal titolo “La rinascita di Sarajevo dopo la guerra in Bosnia“, che si teneva nel circolo di un’associazione in centro a Milano, a due passi dai Navigli. Ci andai: la storia della ex Jugoslavia in generale e quella della Bosnia Erzegovina in particolare mi hanno sempre interessato. Non c’era molta gente. I presenti erano quasi tutti over quaranta: la mostra era bellissima, ma Milano a luglio, nella zona dei Navigli, offre possibilità che a un giovane in cerca di spensieratezza possono sembrare ben più allettanti.
Un ventenne però c’era: massiccio, barbuto, coi capelli lunghi, in sandali, calzoncini e maglietta. Mi venne incontro sorridente, salutandomi con un ciao, come se fossimo amici da sempre. Ricambiai dubbioso, certo che mi avesse scambiato per qualcun altro. Non l’avevo riconosciuto. Da vicino, a rivelarmi chi fosse, furono gli occhi azzurrissimi, con una punta di allegra malizia. «Prof! Come stai?». «Umberto! Che sorpresa!». Era proprio lui, Umberto: quello della scala del pollaio. Era lì, a una mostra su Sarajevo che parlava di dolore e di ripartenza, di rinascita e di futuro. Aveva scelto quella opzione e non i Navigli. «Che ci fai qui?», chiesi stupito. Ciò che mi raccontò mi commosse moltissimo perché, inconsapevolmente, mi spiegò meglio di chiunque altro la parabola del seminatore.
«Prof, intanto scusa: quando tu eri mio insegnante ero proprio un...»: disse una parola che non scriverò qui. Non lo smentii. «Però in quarta superiore è cambiato tutto», continuò. «La prof che è arrivata dopo di te ci ha dato da leggere I dolori del giovane Werther di Goethe e io proprio in quel momento stavo vivendo una storia strana con una tipa, una roba malata. Vuoi che ti racconto?». «No, grazie, Umberto. Puoi risparmiarmi i dettagli».
«In quel romanzo ho scoperto che la storia del protagonista era più malata della mia - proseguì Umberto -. Mi ci sono specchiato un po’. Mi ha fatto male, ma anche bene. Forse mi ha addirittura salvato. Così ho capito che leggere, che studiare, può servire davvero, e mi ci sono messo. E allora ho scoperto un’altra cosa: alle superiori avevo sbagliato totalmente indirizzo. Così, all’università, ho cambiato: mi sono iscritto a Scienze dell’educazione e grazie ai miei studi ho conosciuto questa associazione. È tre anni che d’estate vado in Bosnia come volontario. Faccio l’animatore in un progetto sportivo che unisce ragazzi di etnie diverse. I padri combattevano gli uni contro gli altri in guerra, i figli giocano insieme. È bellissimo, prof. Fare l’educatore è proprio la mia vita». Tacque un istante, prima di cambiare argomento. “Ho anche una fidanzata. Stiamo bene insieme. Parliamo di sposarci. Proprio io, se lo immaginava?».
Non risposi. Abbassai lo sguardo perché avevo gli occhi lucidi. Non riuscivo a non commuovermi di fronte al miracolo di quel ragazzo che aveva sfondato la scala del pollaio e si era avventurato in mare aperto, proprio come Ulisse. Tutto era partito da una prof che gli aveva assegnato un libro. Quello era stato il seme giusto, tra i tanti finiti tra i rovi e sulla strada. Il seme caduto sul terreno fertile del suo dolore, della sua vita. Il seme che aveva portato frutto cento volte tanto. Capii che nessun seme è davvero sprecato, se anche uno solo va a segno. Perché un solo seme nel terreno fertile cambia tutto.