Prima di pubblicare un post su un social network dovremmo porci tre domande: «Si tratta di qualcosa che è necessario dire? È necessario che sia io a dirlo? E che lo dica proprio adesso?». Se la risposta a una qualsiasi di queste tre domande è no, allora è meglio abbandonare la tastiera. Lo scrive il New York Times nelle nuove linee guide per l’uso dei social media rivolte ai suoi giornalisti, a cui raccomanda di non postare sui profili personali opinioni di parte, non prendere posizione per questo o quel personaggio politico, o per un argomento che il giornale tratta in modo imparziale.
E ancora: non condividere contenuti di altri media se sono difformi dalla linea editoriale. L’obiettivo del grande gruppo multimediale, i cui account social sono seguiti da decine di milioni di persone, è non scalfire, nemmeno per sbaglio, la propria reputazione di imparzialità, onestà e trasparenza, in un momento in cui è impegnato in una dura offensiva mediatica nei confronti del presidente Donald Trump. Come dire: guai se i nostri giornalisti appaiono schierati, perfino nella gestione dei loro account privati. Le battaglie di moralizzazione del giornale più blasonato al mondo ne risulterebbero indebolite.
C’è un retroscena che spiega la pubblicazione, proprio ora, di un vademecum che a molti è sembrato fin troppo scontato visto che si rivolge a un corpo redazionale composto più da Premi Pulitzer che da inesperti stagisti. Nei giorni scorsi sul web è apparso un video, registrato a tradimento, in cui il direttore delle strategie multimediali del Nyt, Nicholas Dudich, affermava che proprio la sua imparzialità era il motivo per cui occupava quella poltrona, e che, riguardo a Trump, «occorre colpire i suoi affari, suo figlio, spingere la gente a boicottare i suoi marchi».
Ed ecco che il New York Times è corso ai ripari, chiedendo ai suoi reporter di essere come la moglie di Cesare, al di sopra cioè di ogni sospetto. Al di là dei retroscena, però, le linee guida per giornalisti si prestano ad alcune considerazioni che riguardano ciascun utente. La distinzione tra pubblico e privato, piaccia o no, sui social è assai labile.
Su Facebook e su Twitter ci si sta tutti interi, e dunque anche con il posto che si occupa nella società: un magistrato, un dipendente pubblico, un insegnante, un impiegato, una madre, un padre, restano tali anche quando si esprimono sui loro account personali. La reputazione non è solo quella che si guadagna sul lavoro o in famiglia, ma anche quella che si mantiene (o si sperpera) sui social, che non sono spazi di assoluta anarchia espressiva, dissociata dal resto della vita. Se questo principio è vero, si può riassumere in poche parole di semplice buon senso, che valgono per il guru del giornalismo come per tutti gli altri. Eccole: quando pubblichi un post, ricorda chi sei. E non tradire te stesso.