Un anniversario, un altro di quel terribile 1992 delle stragi, e una tomba senza nome nel cimitero di Partanna. Ma anche il ricordo di tante persone che oggi a quella tomba daranno finalmente un nome. Quello di Rita Atria, neanche 18 anni, testimone di giustizia, morta drammaticamente il 26 luglio 1992 una settimana dopo Paolo Borsellino, non solo il magistrato al quale aveva affidato, con fiducia, la sua testimonianza, ma molto di più, quel padre che non aveva mai avuto.Perché Rita nasce in una famiglia mafiosa di Partanna. Per anni vive tra violenza e omertà. Ad appena 11 anni le uccidono il padre. Ma anche lei accetta, ascolta in silenzio, tiene tutto dentro, come accade ancora – per fortuna sempre meno – ad alcune donne del Sud, donne di famiglie mafiose. Anche a scuola recita bene il suo ruolo di «donna d’onore», soprattutto con le compagne. Ma è proprio la scuola a far scattare in lei i primi dubbi. Già, aveva proprio ragione il giudice Antonino Caponnetto, "padre" del pool di Palermo: «La mafia ha più paura della scuola che dei giudici». E la scuola, con l’incontro con bravi e motivati insegnanti (quanti ce ne sono nella scuola italiana...), scava il cuore di Rita. Non è più piena delle "certezze" inculcate dai suoi e dalla loro cerchia. E dopo la morte di Giovanni Falcone scrive in un tema dedicato proprio alla strage: «L’unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti». Riflessioni, pensieri. Già profondamente eversivi per il sistema, allora asfissiante, di "cosa nostra".Poi, quando viene ucciso anche il fratello, al quale era profondamente legata, e la cognata Piera Aiello, poco più grande di lei, decide di fidarsi e affidarsi alla magistratura, anche lei fa il salto, il primo e più netto. Va e racconta tutto. Non collaboratrice di giustizia, perché lei non ha mai avuto parte in alcun delitto, ma testimone di quello che ha visto e sentito. Memoria giovane, ricordi precisi. Tutte quei racconti ascoltati in silenzio ora trovano finalmente voce. A raccoglierli due magistrati bravi e sensibili, Alessandra Camassa e Paolo Borsellino. Un rapporto che va oltre la formalità giudiziaria, soprattutto con l’allora procuratore di Marsala. Ritrova un padre, forse quello che non ha mai avuto, e in Agnese Borsellino quella madre che, dopo la sua scelta di testimoniare, l’ha rinnegata. Rita è di famiglia a casa Borsellino, Agnese le fa piccoli regali come alle figlie, Paolo capisce il suo tormento e accompagna con delicatezza il suo cammino di cambiamento. «Picciridda», la chiama.È un’altra vita, forse la vera vita per la ragazza. Così piano piano quella sua ricerca di vendetta per la morte dei cari, ancora retaggio della cultura mafiosa, si trasforma in altro. Molto più profondo. «Forse – scrive ancora – un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo». Poi il distacco. Borsellino a Palermo e Rita a Roma, in una casa protetta dalle Forze dell’ordine. Perché quanto ha raccontato è davvero importante e la mafia sa come vendicarsi. Ma c’è tempo. Prima tocca al magistrato. Quel 19 luglio, con la strage di via D’Amelio, la nuova vita di Rita – chiusa, ironia della sorte, in via Amelia – precipita di nuovo nel buio. Ma nel suo diario vuole lasciare ancora un grido di speranza: «Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci».Ma il dolore è troppo e aggiunge: «Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta». Così, sette giorni dopo, sceglie di fermare i suoi giovani anni.ola Rita, ma non giù sul selciato di quella grigia strada romana, tanto lontana dai colori della sua terra. Vola in alto, raccolta tra le braccia del Signore al quale più volte si è rivolta nel diario. Accanto al suo "papà" Paolo, anche lei vittima innocente di mafia. C’è tragicamente pace per questa ragazzina tenacemente coraggiosa. Ma non c’è nella sua Partanna. Rita è ancora un’infame. La madre, decisione terribile, spezza la lapide della sua tomba. E da allora nessuno la sostituisce. Una tomba senza nome. Solo una foto, ma truccata per farla sembrare più vecchia dei suoi 17 anni. Così per vent’anni. Ma c’è chi non la dimentica e ogni anno, il 21 marzo, "Giornata della memoria e dell’impegno" promossa da Libera, ripete il suo nome assieme a quelli di centinaia di vittime della mafia. E chi ogni 26 luglio porta un fiore su quella tomba ignota. Non l’ha dimenticata Piera che, ancora sotto protezione, racconta a tanti giovani quella storia che la mafia vorrebbe far dimenticare.Non va dimenticata la piccola forte ragazzina di Partanna. Non va cancellato il suo nome. Così dopo l’estate nascerà la cooperativa Rita Atria, promossa dalla diocesi di Mazara del Vallo e da Libera, col sostegno del progetto Policoro della Cei, per coltivare terreni confiscati alla mafia. Proprio quella che Rita scelse di combattere. Un lavoro pulito per giovani siciliani come lei. E quel nome, scritto su una lapide, sarà portato oggi al cimitero da tante persone, accompagnate dal vescovo Domenico Mogavero e da don Luigi Ciotti. Resterà però solo all’ingresso perché la famiglia continua a non volere quel nome sulla tomba. Quel nome, quella giovane vita che in una celebrazione eucaristica sarà nuovamente affidato al Signore. Anche come «segno di pacificazione e riconciliazione per questo Paese» spiega monsignor Mogavero. Vent’anni dopo. Perché ogni uomo, ogni donna, ha diritto al suo nome. Alla sua storia e alla sua identità. Anche la piccola Rita che la mafia voleva cancellare ma che con le sue scelte è rimasta e rimarrà nella nostra memoria. Una memoria che proprio nel suo nome si fa impegno e speranza.
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L'omicidio di Santo Romano, 19 anni, dovrebbe far riflettere sul malessere che alcuni ragazzi non sanno esprimere a parole e sul vuoto educativo che dobbiamo colmare