Non si dispiaccia il presidente Mattarella se scriviamo che, insieme allo sprone e alla speranza che si prefiggeva di suscitare, il suo discorso di fine anno ci ha trasmesso anche un certo senso di rimpianto. Rimpianto per i tempi in cui i partiti politici e i corpi sociali sapevano formare figure in grado di leggere il presente e dare indicazioni per il futuro, senza dimenticare (ma per farlo bisogna conoscerle) le lezioni del passato. Leader, insomma. Leader sobri e determinati, che non urlano ma sanno parlare al Paese. Per il suo intervento, stavolta, il capo dello Stato non ha scelto la poltrona dei momenti più confidenziali e nemmeno la scrivania dei discorsi formali: era in piedi, dietro a un leggìo, a significare che il momento è di quelli straordinari, che dal dolore e dalle enormi difficoltà seminate dalla pandemia si può, si deve ripartire. Tutti insieme, però. La solennità non era data dalla forma, ma dalla sostanza lacerante dell’ora che stiamo vivendo. E il leader, quando c’è da mettersi in gioco, non siede. Sta in piedi, in prima linea, ci mette la faccia, anzi la spalla, per farsi vaccinare «appena possibile », dando l’esempio nel rispetto delle precedenze.
Il capo dello Stato ha fatto il discorso che un po’ tutti ci aspettavamo al termine di un anno da incubo, ma lo ha fatto cucendo i vari passaggi con una cultura politica e istituzionale, un’umanità e una sensibilità davvero poco comuni. Ne è venuto fuori un intervento politico, forse il più politico dei suoi anni al Quirinale, nel senso più alto e nobile del termine. Agli italiani, Sergio Mattarella non ha parlato di fredde teorie economiche, di Pil, di percentuali o cifre. Ha parlato invece di scuole, ospedali, teatri, fabbriche, negozi, ristoranti, trasporti. Ha parlato del lavoro che dà dignità. Delle disuguaglianze crescenti. Delle sofferenze di coloro che, nella nostra società odierna, sono già più penalizzati di altri: le donne; i giovani; i disabili fisici e quelli psichici, i quali ormai da lunghi mesi vivono e fanno vivere ai loro familiari situazioni al limite dell’umana sopportazione. Del rischio tangibile che un’Italia già senza figli venga colpita da un calo ulteriore delle nascite.
Ma dal Colle è arrivato anche un messaggio di fiducia nella scienza, nel futuro, nelle risorse del nostro Paese. Grandi occasioni sono il vaccino, finalmente disponibile, e il Next Generation Eu, un «grande compito» da non sbagliare. «Non viviamo in una parentesi della storia. Questo è tempo di costruttori», ha osservato. Come non sentire, in quella esortazione, gli echi di De Gasperi, di Moro? Davanti al virus, ha sottolineato ancora, «ha prevalso l’Europa dei valori comuni e dei cittadini», non quella che reagì alla crisi finanziaria del 2008 «senza solidarietà e senza una visione chiara del proprio futuro », facendo prevalere «interessi egoistici » e ricorrendo a «vecchi canoni politici ed economici» ormai inadeguati. Come non cogliere, qui, un riferimento al sogno originario dei padri fondatori Schuman, Adenauer, di nuovo De Gasperi?
Alla politica di oggi, a ciascuno per la sua parte di responsabilità, il presidente della Repubblica ha chiesto coesione, serietà, collaborazione, senso del dovere. Che non significa dover rinunciare alle proprie idee, alla propria identità, alla dialettica anche aspra, ma vuol dire lavorare tutti per il miglior impiego delle risorse e per una vera, finalmente, rinascita dell’Italia. Senza perdere tempo, sprecare energie e soldi, «inseguire illusori vantaggi di parte». E qui il riferimento ai venti di crisi di governo che soffiano da settimane è parso evidente.
Mattarella si è messo in gioco in prima persona: nell’ultimo anno del suo mandato, appena cominciato, ha annunciato che porrà «al centro» del suo lavoro la ripartenza sociale ed economica dell’Italia. Gli italiani hanno dimostrato di aver compreso l’importanza del discorso, il più seguito di sempre con oltre 15 milioni di telespettatori e il 65% di share. I partiti, di maggioranza e di opposizione, le parti sociali, la società civile, non manchino l’appuntamento.