C’è una via giudiziaria alla lotta contro il cambiamento climatico? Due sentenze quasi contemporanee emesse a 17mila chilometri di distanza sembrano confermare questa tendenza di fronte alla timidezza o all’inerzia dei governi a livello globale. All’Aja, mercoledì, la Corte distrettuale ha accolto la denuncia fatta da associazioni ambientaliste a nome di un ampio gruppo di cittadini nei confronti della Royal Dutch Shell, la più grande compagnia di gas e petrolio del mondo.
La sentenza di primo grado del tribunale ordina alla società di tagliare le proprie emissioni di CO2 e quelle dei suoi fornitori e clienti in modo drastico (-45% entro il 2030 sul livello 2019), ben più del 20% programmato. I ricorrenti affermano che continuare a investire miliardi nella produzione di combustibili fossili costituisca una minaccia ai diritti umani, e la giudice Larisa Alwin ha trasformato questa preoccupazione in una prescrizione legale. Si tratta di una decisione che non sembra avere precedenti per le aziende private e potrebbe aprire le porte a un contenzioso su scala planetaria. La Shell ha annunciato ricorso e sarà decisivo l’esito finale del procedimento.
Poche ore più tardi, a Sydney, la Corte federale australiana ha respinto la richiesta di un gruppo di ragazzi, contrari all’annunciato allargamento di una grande miniera di carbone nel Nuovo Galles del Sud. Nel dispositivo ha tuttavia stabilito che il ministro dell’Ambiente ha un «dovere di cura verso le generazioni future» quando valuta e approva progetti simili, capaci di danneggiare i cittadini con i loro effetti sul riscaldamento del pianeta a causa dei gas serra dispersi nell’atmosfera. Anche in questo caso si parla di un pronunciamento innovativo sulla responsabilità dei governi.
Ma i primi mesi di questo 2021, mentre comprensibilmente tutti eravamo concentrati sul contrasto della pandemia, altre sentenze importantissime hanno messo le basi per un diverso e più diretto approccio nel rispetto del Trattato di Parigi, accordo vincolante sul cambiamento climatico firmato da 196 soggetti, in vigore dal 2016 e ancora poco rispettato.
Il 29 aprile, l’Alta Corte tedesca – sollecitata da un ricorso popolare – ha deciso che il Bundes- Klimaschutzgesetz, la legge federale approvata nel 2019 per limitare le emissioni di gas serra fino al 2030, è sostanzialmente incostituzionale. La cancelliera Merkel si è quindi affrettata a presentare modifiche, in particolare intensificando la dismissione di fonti fossili e inserendo un obiettivo per il 2040, prima della neutralità climatica nel 2045. La criticità rilevata dai giudici di Karlsruhe sta proprio nel peso eccessivo che la normativa avrebbe posto sulle generazioni future per raggiungere gli obiettivi di Parigi nell’ultima fase della loro attuazione.
La tutela della vita, dell’integrità fisica e delle proprietà materiali – si argomenta nelle motivazioni – deve includere anche i danni provocati dagli sconvolgimenti ambientali, compresi gli eventi meteorologici estremi. E dai principi della Legge fondamentale tedesca deriva un dovere oggettivo di protezione da parte dello Stato attraverso le normative. Com’è stato sottolineato, si tratta di un pronunciamento di estremo rilievo giuridico e politico, salutato da tutti i difensori dell’ambiente come una vittoria straordinaria. I critici potranno obiettare che in questo modo passa al potere giudiziario la redazione dettagliata dei provvedimenti che spettano al Parlamento e all’esecutivo, i poteri legislativo ed esecutivo distinti e separati dalla magistratura nella consolidata tradizione liberal-democratica.
A questo rilievo aveva preventivamente risposto la Corte costituzionale olandese con una sentenza del 20 dicembre 2019 con cui imponeva al proprio governo di ridurre al più presto del 25% il tasso di CO2, avendo come riferimento i livelli del 1990. Il procedimento era cominciato in primo grado nel 2013 ed è stato risolto con il richiamo ai diritti umani (in primo luogo, quello alla vita) sanciti dalla Convenzione europea. In base all’articolo 13 della Cedu, ogni ordinamento deve dare la possibilità di un «ricorso effettivo», «anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali ». In altre parole, se l’esecutivo non protegge efficacemente i cittadini dal riscaldamento globale, i giudici devono dare loro un’adeguata tutela legale.
E non importa se il governo si vede limitato nelle sue prerogative, come esso aveva lamentato nella sua difesa in giudizio. Anche Macron ha subito una condanna in primo grado il 3 febbraio, quando il tribunale amministrativo di Parigi, sempre su impulso di alcune Ong, ha dichiarato lo Stato francese colpevole di non avere adempiuto agli obblighi del Trattato sul clima, essendo ritenute insufficienti le misure finora adottate. Il risarcimento simbolico di un euro in quello che è stato chiamato l’«affare del secolo» non toglie importanza a questo risultato, che attende gli altri eventuali gradi di giudizio.
Mentre il Papa non si stanca di riproporre l’accorato messaggio di cura del Creato consegnato al mondo con l’enciclica Laudato si’, molti leader, Paesi e aziende si limitano a parlare di ambiente senza fare seguire alle parole un impegno concreto. La società civile, con i ragazzi che insieme a Greta Thunberg riempiono le piazze il venerdì, ha avviato dal basso un processo che ora sta ricevendo tangibili successi nei tribunali. L’auspicio è che non si debba ottenere solo in questo modo un’azione tempestiva e massiccia contro uno dei principali pericoli che il mondo deve oggi fronteggiare.