Sull’esplosione apocalittica che ha devastato Beirut, riportando alla memoria le immagini dell’insensata guerra civile del 1975-1991 o dei bombardamenti israeliani durante la guerra con Hezbollah del 2006, si inseguono le congetture e le ipotesi più diverse. Incuria, attacco esterno, attentato interno, armi nascoste con criminale avventatezza ove erano depositate da troppi anni queste maledette 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio e mille altre narrazioni ancora. Chissà quanto ci vorrà per avere una risposta chiara e se mai verranno individuati e puniti i responsabili.
Su un piano più simbolico, questo disastro sembra tuttavia paradigmatico dell’implosione di ogni legittimità del sistema politico libanese, ormai avvitato su sé stesso e incapace di dare risposte – anche elementari – ai bisogni e alle richieste di una società disillusa, ma non ancora rassegnata.
Da sempre il Libano vive su un fragile, instabile equilibrio che rispecchia il suo delicato ecosistema identitario, fatto di comunità etno-religiose che hanno pochi motivi per amarsi, e che convivono sullo stesso territorio quasi ignorandosi nella vita quotidiana. Un complicato sistema politico basato sul confessionalismo e a lungo percepito come la risposta alla contrapposizione violenta fra queste comunità. Ma da anni, esso è divenuto una maschera che permette a gruppi familiari, clan e opposte leadership di perpetuare il proprio dominio e di occupare posizioni di potere in modo clientelare.
Il risultato è stato il dilagare di una corruzione imbarazzante anche per gli standard mediorientali, una privatizzazione costosa e inefficiente dei servizi pubblici, una speculazione edilizia aggressiva che ha deturpato il territorio. Oltre, come sempre, al fatto che i diversi gruppi politici e di potere dietro il loro nazionalismo sbandierato, siano spesso portatori degli interessi delle potenze regionali che interferiscono nella vita di questo piccolo e straordinario Paese.
A far deflagrare la rabbia popolare, ancor prima di questa spaventosa tragedia, è stata però la crisi economica e finanziaria che ha portato il Libano al collasso e lo ha reso insolvente nei confronti dei debitori esteri; una crisi acuita dall’incapacità – e dalla mancanza di volontà – dei partiti politici nell’attuare le necessarie riforme elettorali, impedendo nuove elezioni e lasciando al potere uomini e movimenti di dubbia legittimazione.
Sul banco degli imputati è finito in questi giorni il movimento islamista sciita Hezbollah, accusato di essere il responsabile indiretto del disastro. Molti ritengono che siano stati i dirigenti del "partito di Dio" a non voler mettere in sicurezza il nitrato d’ammonio, un composto utile sia in agricoltura sia per assemblare potenti esplosivi, e da sempre usato e acquistato illegalmente da Hezbollah in tutto il mondo. Altri credono che il movimento abbia nascosto armi di contrabbando nello stesso deposito; cosa che non suona improbabile, dato che le milizie sciite occultano i propri arsenali in mezzo alle città, facendosi così scudo dei civili per proteggersi dagli attacchi israeliani, i quali in effetti agiscono in modo risoluto e spietato.
Il loro leader, Hassan Nasrallah, ha rigettato ogni accusa, lamentando una crescente campagna di demonizzazione contro il movimento. Di Hezbollah viene spesso in luce l’evidente azione para-militare e terroristica, mentre resta in ombra la sua pur importante dimensione sociale, di assistenza alla popolazione, cosa che non permette di capire le ragioni del suo successo passato.
È indubbio, però, che oggi il movimento viva uno dei suoi momenti più difficili. Nato per dare voce e aiuti alla comunità marginalizzata degli sciiti libanesi, poi affermatosi quale irriducibile avversario del nemico israeliano, emblema di una voce anti-sistema che sosteneva "gli ultimi" della società, è finito per essere un pilastro stesso del sistema di potere libanese. Che difende oggi con forza, non esitando a minacciare i giovani che protestano nelle piazze. Troppo coinvolto nel conflitto siriano, rispondendo alle richieste del suo protettore e finanziatore iraniano, Hezbollah non riesce a uscire dalla visione settaria e di potere in cui si è infilato. In buona compagnia, del resto, dato che anche le altre comunità libanesi – dai frammentati cristiani ai musulmani sunniti, ai drusi – sembrano incapaci di uscire dal labirinto di proteste che non producono cambiamenti.
Certo, va anche detto che la prudenza nel cambiare le regole del gioco – in un sistema così fragile e delicato – non è cosa negativa: tutto attorno al Libano infuria un uso strumentale del settarismo etno-religioso che ha distrutto interi Paesi. Eppure, dinanzi a questa catastrofe, emblema dei disastri del sistema politico, una risposta che vada verso il cambiamento non potrà essere evitata.