La guerra in Ucraina è arrivata al giorno 134 e si incrocia un’altra volta con gli equilibri politici interni dei Paesi europei che sostengono Kiev nella resistenza contro Mosca. E questo proprio mentre sul terreno le operazioni sembrano scendere momentaneamente di intensità. Se le dimissioni da leader dei conservatori britannici di Boris Johnson sono salutate da molti come la liberazione da un campione del populismo che presto dovrà abbandonare anche la poltrona di primo ministro, il dispiacere più sincero è espresso proprio dalle massime autorità del Paese invaso, a partire dal presidente Volodymyr Zelensky, che lo ha calorosamente ringraziato. Qualcuno propone già di erigere statue al leader uscente, ritratto con la sua bionda chioma ribelle, quale difensore appassionato e generoso della causa ucraina.
In effetti, Johnson è stato sempre un fautore della linea dura con il Cremlino e non ha lesinato aiuti militari. I suoi detrattori gli attribuiscono anche azioni dietro le quinte per rallentare i progetti diplomatici tesi a promuovere le trattative fra i due belligeranti, sebbene il nodo sia sempre stato quello delle concessioni territoriali, che Londra non ha mai assecondato, rimanendo sulla linea intransigente dei dirigenti ucraini. La caduta del premier non è legata primariamente alla crisi nel cuore d’Europa, ma a scandali e lotte di potere interne. Il partito di maggioranza a Westminster è infatti abbastanza compatto nel sostenere Kiev anche con l’invio di armamenti. Non a caso la preferita per la successione a Est è la ministra degli Esteri, Liz Truss, emula della lady di ferro Margaret Thatcher, durissima con la Russia.
Da Mosca invece trapela la soddisfazione e persino l’ironia nei confronti dei rovesci del “nemico” Johnson, con la speranza implicita che il prossimo inquilino del numero 10 di Downing Street sia meno interessato ad alimentare la resistenza ucraina. Ed è quello che al Cremlino farebbe gioco in tanti Paesi occidentali. La disaffezione delle opinioni pubbliche alla causa di Kiev è una delle premesse per una vittoria meno costosa e più larga sul campo di battaglia. Se il prolungarsi dello scontro e il prezzo crescente di esso in termini di difficoltà energetica, aumento dell’inflazione e tensioni internazionali creano una “stanchezza” o addirittura un “fastidio” che allenta la spinta alla solidarietà, ciò si riverbera inevitabilmente sulle scelte dei partiti e dei governi.
In Italia, la crisi ucraina è più rilevante che a Londra nelle difficoltà della maggioranza che sostiene l’esecutivo di Mario Draghi. Il M5s di Giuseppe Conte interpreta la contrarietà della sua base all’invio di altre armi, e questo tema sarà uno di quelli che entreranno nella trattativa per il proseguimento della compagine nella sua forma attuale. È di queste ore la rivelazione contenuta nel libro “Missione” del generale Claudio Graziano, già capo di Stato maggiore della Difesa, secondo il quale un ex ministro 5s, nel governo Conte 1, avrebbe proposto che Roma passasse a una linea di equidistanza tra Nato e Russia.
E la guerra è certamente un elemento anche della debolezza della formazione di Emmanuel Macron, La République En Marche, costretta in Parlamento a cercare alleanze sui singoli provvedimenti, stretta com’è tra la sinistra e la destra, entrambe meno decise nell’impegnarsi nel conflitto avviato il 24 febbraio, sebbene il capo dell’Eliseo sia stato per un periodo tra i più attivi promotori di un negoziato.
Che la partita politica globale possa diventare predominante, lasciando spazio anche alla diplomazia, è segnalato dagli ultimi sviluppi sul campo di battaglia, o meglio i “non sviluppi”. “Per la prima volta in 133 giorni, il 6 luglio la Russia non ha rivendicato alcuna conquista territoriale, avvalorando così l'ipotesi di ‘una pausa operativa’ da parte di Mosca”, si legge nel bollettino dell'Institute for the Study of War, centro studi americano che monitora con grande attenzione il conflitto ora per ora. Dopo aver raggiunto l'accerchiamento di Lysychansk il 3 luglio, completando di fatto la conquista del Lugansk, una delle due province del Donbass, le forze russe potrebbero approfittare della situazione sul campo per ridurre le azioni offensive e ricostruire il proprio contingente nell’area, intenzionate poi a riprendere il tentativo di conquistare obiettivi più ambiziosi. Anche se nelle ultime ore non sono mancati bombardamenti su silos di grano nella zona di Odessa e sull’università di Kharkiv.
In questa fase, l’esercito ucraino, pur ugualmente provato da quasi 5 mesi di combattimenti, potrebbe provare a riconquistare posizioni nel Sud e dare addirittura l’attacco a Kherson, la città snodo della regione meridionale controllata da Mosca. Inoltre, l’arrivo di altre batterie di lanciatori Himars dagli Stati Uniti, capaci di colpire con grande precisione nelle retrovie dell’Armata per decine di chilometri, raggiungendo depositi di munizioni e centri di comando finora rimasti al di fuori del fuoco nemico, può mettere ulteriore pressione sugli invasori e modificare in qualche modo l’inerzia del conflitto.
È comunque troppo presto per affermare che le prossime settimane vedranno una diminuzione dell’intensità dello scontro. Il presidente Putin ha rialzato i toni durante un incontro con la leadership della Duma: "Oggi sentiamo che vogliono sconfiggerci sul campo di battaglia. Cosa possiamo dire, lasciamo che ci provino. Noi non abbiamo ancora cominciato nulla di serio". Se si dovesse, però, aprire uno spiraglio per la tregua, sarebbe dovere della comunità internazionale sfruttarlo nel modo migliore, sia per dare sollievo alla popolazione sia per evitare l’estensione della crisi alimentare ed energetica che vanno coinvolgendo sempre più Paesi e persone con pesanti conseguenze a più livelli.