Twitter ha 500 milioni di utenti.
Mezzo miliardo di persone. Un terzo meno dell’Europa. Entro l’anno, dicono gli analisti, potrebbe raggiungere Facebook.
Quello che avete appena letto, però, su Twitter non sarebbe mai stato possibile scriverlo. Ha cinque caratteri di troppo. Il mondo dei «cinguettii» e del «cinguettare» ( Twitter, appunto) ha le sue regole ferree: ogni messaggiocinguettio deve avere al massimo 140 caratteri; si posso aggiungere link a filmati, pagine Facebook e internet, ma tutti i link si «pagano» (in termine di caratteri in meno da potere scrivere).
L’estrema sintesi, la velocità e insieme il vantaggio e il rischio di essere brevi – e quindi, spesso, superficiali – sono il marchio vincente di questo modo di comunicare su internet, ormai esploso anche in Italia. Lo si fa attraverso i computer, ma soprattutto con smartphone e tablet. Cioè, con telefoni e (quasi) pc che seguono l’utente ovunque. In ogni istante, sull’autobus come in aereo, in vacanza come in ufficio, c’è gente che twitta. Pensieri profondi e sciocchezze da bar, notizie e appelli, denunce e messaggi autopromozionali. Ognuno sceglie chi e cosa seguire. E di ognuno si sa quanti «seguaci» ha e quante persone segue. A rendere non completamente chiuso il sistema di comunicazione tra utenti c’è il fatto che ognuno può ritwittare, cioè rilanciare, a chi lo segue un messaggio che gli è arrivato e che ritiene interessante. Non si può modificarlo o commentarlo, ma solo rilanciarlo. E così chi l’ha scritto viene conosciuto da altri utenti. E via di questo passo.Certo, rispetto a Facebook c’è apparentemente meno interazione. Ma chiunque può mandare e ricevere un messaggio di critiche o di plauso per quello che ha scritto.Abituati come siamo alle regole antiche di certi stili di comunicazione, il mondo di Twitter ci spalanca finestre inimmaginabili. Con le star della televisione e della musica che rispondono direttamente ai fan e che all’improvviso non hanno problemi a far circolare loro foto appena svegli, coi capelli arruffati e gli occhi gonfi, o ad ammettere che il loro album è stato un flop. E con i politici che trovavano una verve e una sintesi che credevamo impossibile per loro. È difficile dire se sia una finzione collettiva o un’autentica rivoluzione dei costumi. Ma Twitter è un mondo dove molte maschere cadono. E dove persone che sembrano integerrime nella vita, si mettono a magnificare i limoni che hanno sul terrazzo o le bellezze architettoniche che hanno visto in una gita fuori porta. Un mondo dove tanti dicono addio alla privacy, rivelando nei loro tweet dove si trovano, con chi mangiano, dove alloggiano e via di questo passo. E certificando il tutto con una foto scattata col telefonino. Di difetti Twitter, come qualsiasi invenzione, ne ha tanti. Il più vistoso è che tutto viene preso per oro colato. E dopo che proprio Twitter ha rivelato al mondo occidentale squarci sulla primavera araba, tanti lo considerano affidabile quanto gli altri media (se non di più, perché più «democratico»). Così, in tutto il mondo, giornali, radio e tv corrono ai ripari.
Rilanciano su Twitter i loro articoli, i loro palinsesti e i loro comunicati stampa. Le aziende fanno lo stesso. Gli addetti stampa pure. Ma a vincere, per ora, sono due cose diametralmente opposte: la futilità e l’ironia (anche pesantissima) e le campagne sociali collettive create con i cosiddetti hashtag, cioè delle specie di etichette preceduta dal simbolo # (il famoso cancelletto). Se non credete ancora alla forza di Twitter, prendete il caso «canone Rai anche per chi ha solo un computer». La notizia è emersa, qualche giorno fa, in un convegno.
Pochissimi l’hanno rilanciata. Quando, due giorni dopo è diventata, un «cinguettio» è scoppiato il finimondo, con decine di migliaia di persone che si rilanciavano la protesta. E visto che in mezzo c’erano tanti giornalisti, all’improvviso è diventata un caso.