Un gran cronista ha detto ieri, commentando il viaggio di papa Francesco, che «essere ottimisti sul futuro dell’Iraq è un atto di volontà». Ma anche di memoria. L’antica Mesopotamia, che i Greci chiamarono così per indicarne la prosperità, nasce come “mezzaluna fertile”, una grande pianura verdeggiante. È il giardino di Genesi, dove sono citati proprio i due fiumi dell’Iraq: «Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi (...). Il terzo fiume si chiamava Tigri: esso scorre a Oriente di Assur; il quarto fiume si chiamava Eufrate» (Gen 2,10.14). Così dunque gli ebrei – gruppi di famiglie costantemente sradicate – immaginavano il Paese sicuro e opulento di Ninive e Babilonia: come un paradiso terrestre.
Le grandi civiltà sorgono sui letti dei fiumi che bagnano le regioni, provocando la vita. Dal passato remoto al passato recente, dal pozzo d’oro bianco al pozzo d’oro nero: dall’acqua al petrolio. Una fonte di ricchezza sempre nuova. La ragione per cui Babilonia resta la grande seduttrice da Genesi sino all’Apocalisse, causa di invidia, perciò anche di maledizione, presso tutti i popoli: «Guai, città immensa, Babilonia, città possente, tutta ammantata di lino puro, di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle (...) i tuoi mercanti erano i grandi della terra e tutte le nazioni dalle tue droghe furono sedotte» (Ap 18,10.16.23).
La Bibbia è ammaliata dal fascino dei musici, dei suonatori di cetra, di flauto e di tromba che dovevano dare uno smalto sopraffino alle mille e una notte delle corti caldee. Nelle parole del presidente Salih rivolte ieri al Papa si coglieva un’eco forte, un orgoglio stemperato di nostalgia, per la grandezza del suo Paese, «culla di civiltà», babele di lingue originarie, il sumero e l’accadico dai caratteri cuneiformi, una terra colma ancora di ogni bene ma devastata da guerre intestine, dall'odio, dalla violenza interna e dalla rapina di quelli di fuori.
«Vengo come un pellegrino penitente», ha esordito Francesco a Baghdad. Dietro l’immagine del pellegrino fotogrammi di differenti, bibliche identità di viaggiatori che, fin dal tempo del mito, attraversarono la terra tra i due fiumi: i popoli che si erano riuniti a fabbricare la torre di Babele (Babilonia, appunto) e che Dio disperse in ogni direzione, confondendone le lingue. E chissà che tra loro non ci fosse anche Abramo con la moglie Sara, che una voce divina aveva spinto a uscire da Ur per portarsi in Canaan. «Esci dalla tua terra», gli aveva detto. Da quella volta mai più Abramo tornò nel suo Paese. A differenza di Ulisse che, dopo vent’anni fece ritorno a Itaca, “l’arameo errante” trovò il suo futuro vivendo e morendo come uno straniero in un Paese non suo.
Ma in Babilonia tornarono i suoi discendenti, profughi ed esuli, costretti a partire con la forza, dopo molti secoli. «Lungo i fiumi di Babilonia là sedevamo piangendo» – dice il Salmo 136 –, e appendemmo le nostre cetre ai salici di quella terra. Memoria poetica e musicale di Salvatore Quasimodo e del Nabucco di Verdi. Il pensiero dei profughi andava «sulle ali dorate» e si posava sui «clivi e sui colli» della terra natìa. Ma il Paese della deportazione si rivelerà, alla fine, una culla per quel “resto di Israele” che tornerà in Giudea a ricostruire il Tempio. «Ho ripreso a viaggiare» – ha detto papa Francesco ai giornalisti che lo accompagnavano ieri sul volo verso l’Iraq – per non deludere e per dare speranza. Per gli ancestrali debiti di fraternità che legano la memoria al futuro e non possono aspettare a lungo per essere saldati.
Che rivelano l’antica verità platealmente riaperta anche dall’attuale pandemia: che siamo tutti pellegrini e tutti oriundi, tutti stranieri e tutti fratelli. Lo rivela il suono gutturale delle lingue semitiche – uguale per l’ebraico e per l’arabo –, lo rivelano i nomi: quello di Ibrahimovic, in questi giorni protagonista a Sanremo, è una delle tante varianti del noame di Abramo. Che la fraternità si costruisce con la solidarietà, con l’abbraccio, con l’impegno comune per la pace, con la cura che ognuno deve avere dell’altro. Un “caro ospite”: così il presidente iracheno ha chiamato Francesco. Come se il padre Abramo, il grande campione dell’ospitalità biblica, fosse tornato finalmente a casa.