Caro direttore, come imprenditore e presidente di Confindustria vivo questi tempi incerti e tormentati con la preoccupazione di chi sente su di sé la responsabilità di dover fare di più, sentimento condiviso da tanti imprenditori italiani. Attraversiamo un’epoca di forte instabilità e il mondo sembra di nuovo preda del virus della sfiducia. Guerre, ondate migratorie, terrorismo, fibrillazioni della finanza, generano ansie che portano a risposte irrazionali, talvolta demagogiche. Per noi imprenditori l’incertezza e il rischio sono elementi quasi naturali, ben presenti alla vita d’impresa. Anzi, per certi versi, sono la spinta invisibile del nostro lavoro. Danno lo stimolo a migliorare, cambiare, trovare risposte ai bisogni espressi dalla società. In fondo è anche per rispondere a timori e rischi che l’umanità ha imparato a proteggersi, curarsi, muoversi e così via. L’attività dell’imprenditore è quella di dare uno sbocco positivo al rischio, ricavandone profitto e con esso garanzie e sicurezza per l’impresa e per la comunità in cui essa opera. Naturalmente cambiano i bisogni da soddisfare e con essi ciò che la società considera sostenibile e accettabile. È stato così per buona parte del secondo ’900. Pensavamo per questo che la storia avrebbe proseguito, più o meno linearmente, il proprio cammino. Abbiamo invece commesso un grave errore di valutazione. La storia non è affatto finita, come teorizzava Fukuyama, ma procede imprevedibilmente, con moto caotico. Alle domande che l’uomo contribuisce a creare con la sua azione, l’uomo stesso non riesce più a trovare soluzioni soddisfacenti. Osserviamo il paradosso di una civiltà che dispone di conoscenze in grado di creare sempre più rapidamente dispositivi di grande potenza e sofisticazione, ma che soffre di una grave debolezza nell’elaborare risposte efficaci a domande fondamentali. Se siamo avviati a una fase lunga di bassa crescita, come assolveremo al dovere di dare un’opportunità di realizzazione e di lavoro a tutti, elementi essenziali su cui si fonda la dignità umana? Come dovremo distribuire la ricchezza prodotta in una moderna società capitalista? Cosa dovrà condividere una comunità per essere coesa e solidale, ma al tempo stesso capace di premiare il merito e i migliori? Quale protezione sociale, istruzione, sanità dovremo costruire per tenere vivo il patto solidale tra gli uomini che è stato a fondamento della società occidentale del secondo dopoguerra? Senza queste risposte le fondamenta del contratto sociale scricchiolano e il patto tra cittadini e politica perde di legittimità. Non è una crisi nostra, sono le leadership del mondo globale che non riescono ad affrontare alla radice questi grandi interrogativi, preferendo la navigazione a vista o peggio la strumentalizzazione del male a fini di consenso personale. Il Santo Padre nell’Evangelii
gaudium ci ha esortato indicandoci che «La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo». La ragione profonda per cui le donne e gli uomini di Confindustria hanno chiesto di incontrare papa Francesco è proprio questa, il desiderio di interrogarsi su quali debbano essere i fondamenti di un nuovo contratto sociale. Sappiamo che la risposta non la troveremo nella tecnologia o nella scienza che oggi sembrano aprire orizzonti che ci rendono quasi increduli. Esse sono espansioni meravigliose, ma sono protesi dell’uomo, del suo pensiero e del valore d’uso che è capace di darne. La risposta non la fornirà il pensiero economico contemporaneo, impreparato a trovare nella propria cassetta degli attrezzi strumenti efficaci a comprendere quanto sta accadendo. Sappiamo di dover cercare altrove nuovi elementi di coesione e certezza. Lo dobbiamo fare essendo creativi, lasciandoci alle spalle vecchi schemi, ma tenendo fermo il patto che sempre un imprenditore vero, un produttore, piccolo o grande che sia, fa con la sua comunità: rispondere ai bisogni, creando lavoro. Fare insieme, per l’appunto. All’udienza con il Santo Padre ci presentiamo con la responsabilità di non eludere domande difficili. Siamo ansiosi di ascoltare e dialogare per percorrere strade nuove lungo cui costruire in modo creativo opportunità di crescita anche per chi ha meno, per innovare, generare nuovo lavoro e capitale sociale. Io sono convinto che la risposta la dobbiamo cercare in un nuovo
ethòs pubblico condiviso, cioè nel cosa dirci e mettere in comune per rispondere a quegli interrogativi che dicevo poc’anzi. In assenza di una visione condivisa,
logos e
pathos dilagano disordinatamente nella narcisistica società contemporanea. La fede, in una società incerta, che manca di coesione e di sistemi di idee, è un elemento di straordinaria importanza e vitalità. L’impresa e il lavoro sono componenti essenziali per il disegno di una risposta innovativa, fondata sull’equità e il merito del fare. Il sottile nemico da battere è l’illusorio gioco della speculazione e della società virtuale che sono state, sono e saranno, se non arginate, il motore di tanta ricchezza illusoria e di altrettanta concreta diseguaglianza e povertà.
*Presidente Confindustria