Una delle lezioni di questa crisi finanziaria globale è che con le previsioni bisogna andarci piano. Fior di economisti, sparute le eccezioni, del tracollo Lehman Brothers si sono accorti il giorno dopo inciampando sulle macerie, e dell’incendio greco hanno respirato solo il fumo quando le fiamme erano ormai divampate in mezza Europa. C’è sempre un 'cigno nero', un fatto imprevedibile, pronto ad alzarsi sull’orizzonte delle modellizzazioni matematiche delle stime econometriche. Ecco perché non conviene cantare troppo presto vittoria dopo l’ultima asta dei titoli di Stato, che ha visto ieri dimezzarsi i rendimenti dei Bot a sei mesi (anche se il famigerato spread, quello delle emissioni decennali, ha continuato a ballare pericolosamente sopra il tetto dei 500 punti). Oggi con i Btp ci sarà una nuova prova del nove. Ma è soprattutto in primavera che l’Italia dovrà scalare la montagna più alta, con emissioni per 150 miliardi di euro.
Tanto per avere un termine di paragone, nel 2001 i mercati finanziari mondiali sono stati violentemente scossi dal crac argentino su 95 miliardi di dollari di debito pubblico. Ad oggi rimane il più grande default sovrano della storia. Lehman Brothers, invece, prima della bancarotta, era in passivo per 613 miliardi di dollari: l’Italia ha un debito sovrano quattro volte superiore.
Il terreno rimane dunque minato. A ogni asta è indispensabile camminare in punta di piedi e sul buon fine della traversata molto influiranno la capacità italiana di rilanciare la crescita e la determinazione europea nel perseguire un’unione fiscale coronata da un ruolo potenziato per la sua Banca centrale.
Resta un fatto, tuttavia, che l’ultima asta del 2011 per i Bot, in un contesto difficilissimo e fra le mille preoccupazioni della vigilia, è andata piuttosto bene. C’è stata addirittura una corsa ad accaparrarsi i 9 miliardi di titoli offerti, tanto da decomprimerne con vigore i rendimenti. Un segnale che non va trascurato. Niente previsioni, si è detto. Ma se provassimo a trasformare il racconto della crisi nella trama di un giallo, potremmo allora considerare l’esito dell’emissione come un primo indizio sulla tenuta del debito italiano. A cui si potrebbe aggiungere un secondo spulciando fra le ricerche prodotte dall’ufficio studi della banca svizzera Ubs, finora mai tenera – anzi, tutt’altro – nei suoi giudizi sulle finanze di Roma. Dal fortino elvetico del franco, infatti, insieme alla cugina Credit Suisse, Ubs era stata fra le prime a consigliare ai propri clienti e agli investitori in generale di allontanarsi il più velocemente possibile da Bot e Btp. Preconizzando un massacro. Ora inserisce invece fra le dieci possibili 'sorprese per il 2012' addirittura un 'upgrade' del debito sovrano italiano. Immagina cioè che il nostro rating, il giudizio che misura la capacità di uno Stato di onorare gli impegni, venga alzato e non ulteriormente abbassato. «Sì, stai leggendo bene», ribadisce il colosso svizzero nel suo report: «Non è impossibile».
Alla ricerca della classica 'prova' – restando nell’ambito del thriller finanziario e non nel campo delle previsioni economiche – aggiungiamo pure un terzo indizio lasciato sul luogo del possibile delitto nientemeno che da George Soros, che nell’immaginario collettivo ha vestito spesso i panni del 'grande vecchio' della finanza mondiale. Fu proprio lui a sparare vent’anni fa contro lira e sterlina qualcosa come un miliardo di dollari, costringendo entrambe le valute ad abbandonare il Sistema monetario europeo. Se non è speculazione questa... In pochi allora pensavano che sarebbe riuscito nel suo intento, ma fu lui a vincere e intascare una valanga di soldi. Soros ha appena comprato un miliardo e mezzo di dollari in titoli di Stato italiani 'approfittando' del fallimento della statunitense Mf Global Holdings, società di brokeraggio che ha fatto crac per aver scommesso sui bond sovrani europei nel momento in cui le grandi banche e i fondi d’investimento li stavano invece vendendo a man bassa. Se il finanziere d’assalto non ha perso il suo proverbiale talento e ha fiutato ancora una volta prima degli altri l’affare, presto si potrebbe registrare un ritorno d’interesse dei grandi capitali – soprattutto americani – per i nostri titoli di Stato. E se i flussi finanziari ritornano, i prezzi dei titoli aumentano e i loro rendimenti calano, raffreddando di conseguenza il differenziale con gli inossidabili Bund tedeschi. Tutto ancora da verificare, certo. E non è detto che basti ad allontanare l’incubo spread o scongiurare la visione del prossimo 'cigno nero'. Ma quanto meno, in questo cupo scorcio di fine anno, dal 'rumore bianco' dei mercati finanziari arrivano anche questi tre segnali. Sono anch’essi la conseguenza dei sacrifici ai quali gli italiani si stanno assoggettando e della fatica del rilancio. Non un puro e semplice motivo di sollievo, ma la conferma di un compito comune da assolvere. Per noi stessi.