La battaglia sulla riscrittura delle regole dell’Unione Europea che non aspettavamo prima del prossimo autunno – e che avremmo voluto nell’autunno di tre anni fa – è cominciata quest’estate. L’Italia ha sparato il suo colpo con la proposta contenuta nell’ultimo libro dell’ex premier Renzi e nelle manovre già avviate dal presidente del Consiglio Gentiloni, volte ad abolire il Fiscal Compact per cinque anni e portare il deficit immediatamente sotto la simbolica soglia del 3% (al 2,9) al fine di liberare risorse da usare per la riduzione delle tasse e far ripartire il Paese.
In economia come nella vita reale i problemi sono complessi, i dati necessari per risolverli sono incompleti, ma esistono più vie per arrivare a una soluzione. Che quella del Fiscal Compact fosse particolarmente tortuosa e poco efficace è ormai di dominio pubblico. Il Fiscal Compact nasce già non come la via più breve e logica per la ripresa europea in un quadro di sostenibilità del debito, ma piuttosto come una di quelle prove di fedeltà chieste a un partner con scarsa reputazione che deve dimostrare a proprie spese di meritarsi la fiducia degli altri. Che contenere il rapporto deficit/Pil sia importante soprattutto per noi non è in discussione. Ciò che è altamente opinabile è che la via migliore sia quella di ridurre di un ventesimo all’anno il rapporto debito/Pil e di muovere rapidamente verso il pareggio strutturale del bilancio pubblico, pareggio che non coincide con quello effettivo e dove i margini d’indulgenza sono fondati su un parametro quanto mai aleatorio e opinabile come quello dell’output gap, ovvero il divario tra il Pil reale e la crescita potenziale, perché fondato su modelli teorici e stime econometriche tutt’altro che scolpite nella pietra.
Abbiamo scritto più volte come la Ue stesse vivendo negli ultimi anni la situazione paradossale di un sistema di regole di fatto disatteso da quasi tutti, che però non si ha il coraggio di mettere in discussione. Il tema ripreso da Renzi era l’incipit del manifesto per la riforma della Ue pubblicato su "Avvenire" nell’ottobre 2014 e firmato da più di 350 economisti, italiani e no. Manifesto che iniziava proprio citando la sfida al Fiscal Compact della Francia che dichiarò allora di non voler restare sotto il 3% nel rapporto deficit/Pil. Dopo quell’episodio Francia e la Spagna hanno continuato ad avere rapporti deficit/Pil lontani dalla via verso il pareggio, la Germania non ha rispettato la regola sui limiti del surplus commerciale e l’Italia stessa (sotto la spada di Damocle di minacce di procedure d’infrazione poi non avviate) ha derogato dal sentiero del Fiscal Compact come e quando ha voluto. Godendo di fatto di un contesto assai più morbido del previsto soprattutto dopo la Brexit.
Mentre tra istituzioni comunitarie e Paesi membri si giocava questo balletto pirandelliano il dibattito tra gli economisti ha fatto presente che il pareggio di bilancio (seppure mitigato dai bizantinismi sull’<+CORSIVOIDEE>output gap<+TONDOIDEE>) non appariva affatto la via maestra per perseguire crescita economica e aggiustamento della finanza pubblica nel campo di gioco macroeconomico di questi anni. E che la camicia di forza del Fiscal Compact ci impediva di avvantaggiarci di una grande opportunità dei nostri giorni: la possibilità di indirizzare, in un’era di tassi bassi, risorse pubbliche su investimenti infrastrutturali ad alto moltiplicatore, ovvero in grado di generare crescita e risorse fiscali tali da coprire l’iniziale aumento di spesa pubblica. Opportunità suggerita persino da economisti che in passato avevano sostenuto che la riduzione della spesa pubblica avrebbe avuto effetti espansivi e non recessivi e in seguito hanno invece ammesso e sottolineato che questa era un’opportunità da cogliere. Oppurtunità indicata dallo stesso governatore Draghi nel famoso discorso di Jackson Hole, nel quale affermava che la via maestra non era quella di ridurre, ma di riqualificare la spesa pubblica muovendo da utilizzi a basso moltiplicatore a utilizzi ad alto moltiplicatore.
La strategia di Renzi e di Gentiloni per la battaglia di autunno appare dunque giusta in termini di principio e anche opportuna in una prospettiva di strategia politica. In termini di principio deve servire come grimaldello per arrivare alla definizione di un’Europa diversa che includa anche un percorso per l’armonizzazione fiscale, la mutualizzazione del debito e una misura integrata europea di reddito d’inserimento per aiutare i disoccupati e gli scoraggiati a tornare sul mercato del lavoro. In termini di strategia politica appare fondamentale per rompere l’assedio di una narrativa che si è impadronita di una parte del Paese e che racchiude azione di governo, euro e migranti un unico 'blocco' responsabile di tutti i mali d’Italia. Inutile pensare che bastino argomenti robusti (che pure abbiamo esposto più volte su queste colonne e con il sopra citato manifesto per la riforma dell’Eurozona) per affermare che i problemi e le soluzioni sono altre. Per questo è opportuno che si sparigli il campo, rompendo l’asse immaginario governo italiano-iper-rigorismo europeo. E il lato naturale, e migliore, da cui farlo è quello della lotta a una per nulla edificante austerità.