«Quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare». Iniziamo con una citazione leggera – la nota frase in bocca a John Belushi nel film Animal House – per introdurre un tema serio e cruciale. Il “gioco”, a livello mondiale, si è fatto duro da quando crisi climatica ed emergenza energetica – come ci ha confermato la recente Cop27 – sono diventate punti fermi dello scenario globale. Proprio in questa fase, è il momento che i “duri” inizino a giocare. Fuor di metafora: in un’epoca come l’attuale risulta decisivo valorizzare tecnologie “povere” ma efficaci, elaborate da Paesi in via di sviluppo o in contesti geografici difficili. Proprio perché il pianeta sembra presentare sempre più spesso situazioni inedite e sfide estreme, diventa sensato guardare all’esperienza di chi, già in passato, ha dovuto misurarsi con condizioni climatiche avverse o con la scarsità di materie prime e di beni essenziali come l’acqua.
Qualche esempio, partendo dall’architettura. Nomi come Yasmeen Lari e Francis Kéré alla maggioranza dei lettori dicono poco, poiché manca loro la notorietà di Renzo Piano o dell’anglo-irachena Zaha Hadid. Ma val la pena conoscerli: Lari è stata la prima donna architetto del Pakistan e ha alle spalle una prestigiosa carriera che l’ha vista lavorare a progetti avveniristici in varie parti del mondo. La sua scheda su Wikipedia, però, sottolinea che «è nota soprattutto per il suo coinvolgimento nell’intersezione tra architettura e giustizia sociale». Lei stessa, in un’intervista, si è definita «un’archistar a piedi scalzi». Il motivo è presto detto: dopo aver fondato col marito un’organizzazione non profit per tutelare il patrimonio architettonico del suo Paese, in seguito al terremoto che ha duramente colpito il Pakistan nel 2005, ha cominciato a progettare e realizzare capanne di bambù per le persone vittime delle inondazioni che ciclicamente colpiscono quell’area dell’Asia. E per tale ragione l’anno scorso il Politecnico di Milano le ha conferito la laurea magistrale ad honorem in Architettura.
Diébédo Francis Kéré, nato in Burkina Faso e residente a Berlino, è invece diventato famoso in tutto il mondo «per le sue strutture armoniose in grado di adattarsi ai diversi climi», come ha scritto la rivista “The Atlantic”. Pochi mesi fa è stato premiato con il prestigioso Pritzker Architecture Prize, una sorta di Nobel. A Dakar ha realizzato una struttura orientata in modo che gli alberi vicini forniscano ombra; le spesse pareti, con mattoni in terra cruda, isolano l’interno dal caldo africano. Uno strato di pareti perforate avvolge l’edificio, con il duplice obiettivo di filtrare la luce del sole e incanalare le correnti d’aria. Cambiamo settore. La famosa “irrigazione a goccia”, diffusa da decenni in Israele, rappresenta il perfezionamento di antiche tecniche già intuite secoli orsono (un tempo si usava riempire contenitori di argilla che filtravano l’acqua molto lentamente).
Ultimo: nel 2021 la Commissione europea ha dato il via libera al commercio e al consumo in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea di una tipologia di insetti commestibili. Molti di noi hanno reagito con stupore e fors’anche con un po’ di disagio a tale notizia, ma resta il fatto che il consumo di alcuni tipi di insetti rappresenta una forma di alimentazione molto diffusa in Paesi come la Cina e nel Sud del mondo. E che viene considerato una possibile alternativa all’allevamento intensivo di animali, attività che, come sappiamo, produce un impatto problematico sull’ambiente.
Cosa ci suggeriscono tutti questi esempi? Siamo davanti a un mutamento epocale, nel quale anche i Paesi più evoluti tecnologicamente avranno da imparare dai più poveri. Un vero e proprio cambio di paradigma, che vedrà gli ultimi del mondo salire, per una volta, in cattedra. Non si tratta di cedere al “politically correct” e dar spazio ai diseredati in obbedienza a una moda. Anzi: con ogni probabilità le soluzioni migliori verranno, in futuro, da un mix tra vecchie e nuove tecnologie, da un’alleanza fra esperienze e sapienze secolari e progresso scientifico avanzato.
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