Gli ultimi bollettini e previsioni sullo stato di salute del Paese indicano un quadro di salute non certo rassicurante. I dati oggettivi su crescita e occupazione degli ultimi trimestri dell’economia italiana e non solo le previsioni di troppi 'gufi' (Confindustria, Istat, Commissione Europea, Ocse) ci dicono che i nodi dell’Italia stanno arrivando al pettine.
Nodi che il governo con il decreto crescita sta tentando di scogliere. Siamo tra i pochissimi Paesi del mondo (si contano con le dita di una mano) finiti in recessione perché ai motivi strutturali che ci tengono da sempre al di sotto della media europea si aggiungono i più recenti errori dell’impostazione sovranista. Dietro quest’impostazione, al di là dei singoli provvedimenti dobbiamo avere la capacità di leggere un’insidia più sottile e profonda. L’idea che esista una stanza del tesoro, una vacca da mungere e non meccanismi molto delicati che ci consentono rimuovendo lacci e lacciuoli di realizzare una torta da costruire insieme.
E che la generatività e la soddisfazione di vita ('Avvenire' ha iniziato a misurarla nelle provincie italiane con l’indagine pubblicata il 29 marzo) sia nell’estrarre un valore apparentemente già disponibile e non nell’assumersi l’onere e l’onore di contribuire a crearlo. I dati sul ben-vivere sono la fotografia ad oggi e il frutto degli sforzi delle generazioni passate che hanno saputo contribuire e cooperare per creare valore economico che si è tradotto in servizi e benefici per tutti. Se il patto sociale fondato sulla consapevolezza che il valore deve essere creato prima di poter essere redistribuito viene meno, le conquiste del passato possono rapidamente svanire. I dati sono chiari. Con il passato governo si passa dal territorio negativo ad una crescita superiore all’1% mettendo l’accento sulle agevolazioni all’investimento in nuove tecnologie dell’imprese per colmare il drammatico gap generatosi dopo la crisi finanziaria globale.
La debole ripresa non si traduce però in una crescita di benessere avvertibile per i ceti medio-bassi che vengono attratti e lusingati dalle promesse dei nuovi partiti di governo. Promesse in parte mantenute con il varo del Reddito di cittadinanza e Quota 100. La battaglia verbale con l’Europa e la cultura ostile nei confronti dello sviluppo delle infrastrutture riducono nel frattempo la fiducia dei mercati e quella delle imprese. Il conto è salato perché la salita dello spread (che anche in questa fase di relativa quiete resta strutturalmente più elevato che con il passato governo) fa aumentare gli interessi che paghiamo sul debito e si mangia i deboli effetti di sostegno alla domanda interna derivanti da Rdc e Quota 100. Intanto, la guerra commerciale di Trump fa cadere la previsione di crescita del Pil mondiale manifestando i suoi effetti negativi prima di tutto sui grandi esportatori come la Germania, e noi con loro.
Quanto allo spread e ai costi del debito è da sottolineare che chi ci presenta il conto non è affatto l’Europa ma i mercati finanziari. Che non sono costituiti da poteri occulti e poche mani ma dalle miriadi di piccole decisioni di risparmiatori che detengono i nostri titoli di Stato (la maggioranza dei quali italiani). I provvedimenti contenuti nel decreto crescita indicano un parziale ravvedimento rispetto alle strategie precedenti. L’importanza delle agevolazioni agli investimenti viene riconosciuta rinforzando superammortamenti e iperammortamenti precedentemente depotenziati.
Si varano tante piccole iniziative nella direzione giusta volte a semplificare la vita delle imprese, favorirne l’accesso al credito, stimolando nel contempo digitalizzazione ed economia circolare. Resta all’orizzonte, però, il vero grande pericolo che dobbiamo temere: la tentazione delle forze di governo di assecondare le pulsioni più popu-liste e demagogiche delle loro basi elettorali da loro stessi 'viziate' nella ininterrotta campagna elettorale che fa da sfondo alla vita politica del nostro Paese.
La maturità di una classe politica si misura su questo metro. Sullo sfondo la storia drammatica di un paese come il Venezuela dilaniato da decenni di populismo dopo essere stato in passato il rifugio e la terra promessa di molti imprenditori e cittadini italiani. La speranza è che i politici italiani temano più il giudizio della storia che le variazioni percentuali di breve e brevissimo termine dell’umore dei loro elettori.