mercoledì 20 gennaio 2016
​ Interpretazioni di una legge, il faro è la Costituzione
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«È poco rispondente ai fini della giustizia sostanziale la condizione di chi debba giudicare di un fenomeno della vita fuori del mondo reale, fuori della vita e con la sola guida della logica concettuale». Per questo il magistrato che pretenda di emanare le sentenze applicando «il vecchio metodo tradizionale dell’indagine giuridica, tutto esteriore e meccanico», rimanendo «estraniato» dal mondo che lo circonda, non sarà in grado di rendere giustizia. Chi parla così? Un giurista che, negli anni 70 del secolo scorso, teorizzava la «giurisprudenza alternativa» e la necessità di discostarsi dalla lettera della legge per essere più aderente alla realtà sociale? O forse sono parole di oggi? Di un odierno fautore del ruolo del magistrato non più «giudice della legge» ma «giudice dei diritti»? Di uno di quei moderni teorici secondo cui i diritti vanno ricostruiti in modo «rapsodico» in un sistema di fonti sempre più ampio e intricato, per cui il giudice è oggi un «coprotagonista del legislatore, nella ricomposizione di una trama normativa che appare ormai come un semilavorato nelle mani di chi deve applicarlo»? ( Vittorio Manes, Il giudice nel labirinto, p. 3 'Dike', 2012).   No. A parlare in quel modo, a rivendicare l’affermazione della «giustizia sostanziale», in polemica con i magistrati troppo rispettosi della lettera della legge è, nel discorso inaugurale dell’anno giudiziario 1927, il fascistissimo procuratore generale della cassazione Giovanni Appiani. La cui critica verso «il magistrato dottrinario» che «con presunzione di sufficienza» si chiude «in una torre di avorio», sarà ripresa, nel 1935, dal «Bollettino del sindacato fascista degli avvocati». E dunque, cominciamo da una considerazione storica: l’idea del giudice che, nell’applicare la legge, non è schiavo della lettera della norma ma si fa interprete delle esigenze di giustizia e dello spirito del tempo, non è una prerogativa del pensiero progressista ma riappare, in modo carsico, in tutte le epoche, vestendo panni diversi. E, per contro, il carattere un po’ sacerdotale del magistrato e la sua fedeltà assoluta alla volontà del Legislatore cristallizzata nella norma scritta, non sono sempre stati fattori di conservazione. È un fatto che la rigorosa difesa della funzione del giudice, come momento applicativo e non di creazione della norma, fu, sul finire degli anni 30 del Novecento, la migliore difesa contro la dittatura: con cui si poté impedire l’ingresso nel sistema di meccanismi capaci di consegnare alla sfera della politica l’amministrazione della giustizia. Ben lo sapeva Piero Calamandrei che, nel gennaio 1940, nella conferenza ai giovani fiorentini della Fuci (pubblicata da Laterza nel 2008 con il felice titolo Fede nel diritto) polemizzava contro la «formulazione giudiziaria del diritto», secondo cui il giudice, nell’applicare la norma scritta, la deve rinvigorire con le esigenze della società, attingendo alle regole sociali da lui stesso rilevate, lasciandosi investire dal «vento che irrompe dalle finestre». In quel gennaio 1940, con l’Italia che sta per entrare in guerra al fianco di una Germania che allora pare invincibile, Calamandrei è un uomo angosciato dal timore che le dittature affermatesi negli anni 20 e 30, dopo aver plasmato culturalmente una nuova generazione, stiano per travolgere gli ultimi residui di una civiltà che, agli occhi dei giovani, apparivano come vecchi arnesi di un «passato in dissoluzione». Per questo, il giurista fiorentino contrasta con forza quasi disperata «il diritto libero» che «fa della norma una scatola vuota» che viene riempita arbitrariamente dalle scelte personali dei giudici o, quando soffia forte il vento della politica, dallo «spirito del tempo». E si aggrappa al «sistema della legalità» in cui vige «la repartizione tra giustizia e politica», in forza della quale «al giudice (e in generale al giurista) non spetta discutere la bontà politica delle leggi; spetta soltanto, in quanto giudice e in quanto giurista, osservarle e farle osservare». Sappiamo che anche questo rispetto sacrale della «lettera della legge» può generare barbarie. Lo stesso Calamandrei lo riconoscerà: indicando come magistrati esemplari alcuni giudici che, chiamati ad applicare le leggi razziali del ’38 e ’39, cercarono di attenuarne il più possibile le conseguenze ricorrendo ad «artifici interpretativi giuridicamente discutibili». Quei magistrati (tra cui ricordo Domenico Riccardo Peretti Griva), fedeli allo spirito di tolleranza dello Statuto albertino, aggirarono la legge. Sostenendo, ad esempio, in favore dei nati da matrimoni misti e dei catecumeni, la competenza dei giudici ordinari a stabilire l’appartenenza dei cittadini a una determinata razza: tesi che cozzava palesemente contro precise disposizioni della legge n. 1024 del 1939, che arrogava alla «esclusiva competenza del ministero dell’interno ogni decisione in materia razziale». Dunque, quei giudici tradirono la «lettera della legge». E ancora oggi gliene siamo grati. Da sempre il diritto ha due volti: quello formale (la forza che diventa legge scritta) e quello sostanziale (l’equità, i mores, i valori variabili nel tempo, intorno ai quali un agglomerato di persone diventa società). Da sempre il rendere giustizia è in bilico tra queste due sponde. Grandi delitti sono stati commessi, nel corso della storia, sbandando verso una di esse. Sia invocando la sovranità della legge: «la legge è legge, l’abbiamo solo applicata», si giustificavano i criminali nazisti processati a Norimberga. Sia invocando, oltre la sua lettera, la giustizia sostanziale, i valori del popolo: «si deve punire seguendo il sano sentimento del popolo, oltre il pregiudizio borghese del nullum crimen sine lege », proclamavano i giudici della Russia staliniana che ordinavano la fucilazione della madre colpevole di aver raccolto il cadavere del figlio ribelle. Dunque, bisogna stare all’erta: il diritto come forma può diventare strumento del più forte, che non persuade bensì prevarica sul debole; ma anche i valori (le «leggi non scritte» invocate da Antigone) a volte generano mostri: quando, per essere realizzati, ci chiedono di non badare alle regole. Il problema è sempre l’equilibrio. Trovare il punto di equilibrio tra rispetto della legalità e giustizia nel caso concreto. Come avrebbe detto proprio Peretti Griva, evitare le due soluzioni più comode: quella dell’applicazione meccanica della legge, che fa del giudice un burocrate e della sua professione una routine; e quella dell’arbitrio presuntuoso che ritenendo di «rendere una giustizia che egli, soggettivamente, creda migliore» - fa assumere al giudice «una parte che non gli spetta, quella del legislatore» (Peretti Griva, Esperienze di un magistrato, Einaudi, 1956, pp. 169-170, 263). La magistratura italiana, nel suo complesso, negli anni del Dopoguerra, ha cercato (sia pure con qualche sbandamento) di essere fedele a questo insegnamento, avendo come faro la Costituzione. La storia dell’evoluzione dei diritti nell’età repubblicana è la storia del lento e faticoso affermarsi dei princìpi costituzionali sulle tante scorie autoritarie che gli apparati statali e la società avevano ereditato dagli anni del Regime e che furono spazzate via, a partire dal 1956, proprio grazie al ruolo propulsivo delle sentenze della Corte costituzionale, sollecitate dalle ordinanze di tanti giudici e dal loro confronto culturale con l’avvocatura. Fu così che si arrivò alla cancellazione delle norme più arcaiche del codice penale e del Testo unico di pubblica sicurezza e al superamento della legge che vietava alla donne l’ingresso in magistratura (che si avrà solo nel 1963). Ma quel tipo di intervento operava in modo limpido: registrando l’irriducibile contrasto tra leggi vigenti ed espliciti princìpi sanciti in Costituzione. Pensiamo all’evidenza del contrasto tra un’istruttoria penale in cui la difesa era totalmente assente (l’avvocato può esser presente all’interrogatorio dell’imputato soltanto dal 1971!) e il principio dell’art. 24 secondo cui «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento».  Anche l’applicazione «costituzionalmente orientata» delle leggi ordinarie (per cui, tra due interpretazioni possibili di una norma, va preferita quella più fedele ai princìpi costituzionali) si colloca in questo solco e rispetta la tradizionale divisione dei poteri: perché la fonte che consente al magistrato di risolvere il contrasto tra norma scritta e giustizia nel caso concreto promana comunque dalla volontà popolare. (1 - continua) © RIPRODUZIONE RISERVATA
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