Come annunciato il 15 ottobre scorso, nel 2019 si terrà l’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per la regione panamazzonica, il cui scopo principale sarà quello di «individuare nuove strade per l’evangelizzazione di quella porzione del Popolo di Dio, specialmente degli indigeni, spesso dimenticati e senza la prospettiva di un avvenire sereno, anche a causa della crisi della foresta Amazzonica».
La foresta Amazzonica copre un territorio di sei milioni di chilometri quadrati, che abbraccia per il sessantacinque per cento il Brasile e si estende anche in Colombia, Perù, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Guyana, Suriname e Guyana francese, ove si calcola che gli indigeni siano fra i duecento e i trecentomila. Il primo importante passo di avvicinamento a questo evento avverrà venerdì 19 gennaio, quando papa Francesco incontrerà la popolazione indigena a Puerto Maldonado in Amazzonia.
L'attenzione a questa parte di umanità spesso dimenticata ci offre l’occasione per riflettere sulla ricchezza della sapienza indigena e sugli sviluppi teologici che da circa trent’anni si stanno consolidando. Il primo congresso di teologia india, infatti, fu celebrato a Città del Messico nel 1990. In America latina, la lunga storia degli indios – i discendenti degli abitanti originari di Abya Yala (la Madre Terra) – oggi corrisponde a più di cinquanta milioni di persone, sparsi in diversi blocchi culturali e molteplici lingue parlate e scritte. Il recente fenomeno delle teologie indigene, in America Latina e nei Caraibi, come in altre parti del mondo, consiste nel tentativo di armonizzare la spiritualità dei popoli originari e le culture ancestrali precoloniali con il cristianesimo. Dopo una lunga storia di difficili rapporti e di ricerca di soluzioni, oggi, si dischiude uno spiraglio nuovo di dialogo interculturale, grazie ad alcuni fattori di tipo sociale, come il passaggio dalla resistenza passiva a quella attiva da parte dei nativi di una determinata regione, da una lotta separatista all’unione con altre forze sociali, e grazie ad un processo di trasformazione ecclesiale, segnato da un progressivo apprezzamento e rispetto delle cause indigene, da parte delle gerarchie ecclesiastiche.
Secondo uno dei principali autori latinoamericani - il messicano di origine zapoteca Eleazar López Hernández -, la teologia india ha come soggetto il popolo oppresso, che sviluppa il proprio pensiero in forma comunitaria, usando come mezzo di espressione il linguaggio mitico-simbolico, privilegiando lo spazio rispetto al tempo, rivolgendo la sua principale attenzione alla terra, poiché la terra è la sorgente della vita, e senza la terra la vita non è possibile. Naturalmente, quando si parla di teologia india o indigena si tenta di ricondurre ad unità molteplici fattori che hanno in comune un modo di fare teologia ed alcune caratteristiche convergenti. Il formarsi della cultura india passa attraverso alcuni snodi fondamentali che segnano la storia dei popoli precolombiani, caratterizzata dapprima per la condizione nomadica, poi per quella sedentaria, quindi dall’urbanizzazione ed infine dall’epoca coloniale. L’originaria cultura dei popoli nomadi, presenti in America Latina e nei Caraibi da oltre trentamila anni, probabilmente spiega il loro carattere conformistico dinanzi al dolore e alla morte, tanto da conservare consapevolmente l’idea che solo Dio permane, mentre noi siamo pellegrini su questa terra. Nel pensiero nomadico, infatti, si accentua il principio che gli uomini e gli animali sono figli di Dio, posti nel mondo per rendergli grazie, benedirlo e glorificarlo; in particolare, l’uomo e la donna sono responsabili dell’armonia del cosmo, chiamati al rispetto e alla costruzione di una relazione armonica tra Dio e la natura, non facile a causa degli sconvolgimenti naturali (terremoti, diluvi, uragani, etc.), che rivelano il potere divino e minacciano l’esistenza umana. Da questa cultura nomadica, la teologia india eredita il principio ecologico della convivenza pacifica con tutta la creazione.
La successiva epoca di sedentarizzazione, avvenuta tra cinque e seimila anni fa, segna una svolta decisiva anche nel modo di comprendere il mondo, l’uomo e Dio. I miti agricoli fanno il loro ingresso per spiegare l’azione convergente di Dio e dell’uomo. Secondo la prospettiva mesoamericana, Dio è Quetzalcóatl (sintesi di cielo e terra, di umano e divino), che non domanda riverenza, ma collaborazione, in quanto non solo l’uomo ha bisogno di lui, ma anche viceversa. Dio, anziché padre o madre, è talvolta fratello o compagno di viaggio, in certo senso 'concreatore', e la natura appare come un’opera comune di Dio e dell’uomo, di cui restano entrambi responsabili. All’interno di tale prospettiva teologica, l’essere umano si configura come sacramento della presenza di Dio, che, con il suo lavoro, organizza il mondo per la vita. Dio, quindi, non abita i templi, ma vive nel cuore dell’uomo mio fratello. Questo importante concetto teologico sta alla base di una solida visione umanizzante di Dio, che ha certamente favorito l’accoglienza dell’incarnazione del Verbo, portata dal cristianesimo dell’epoca coloniale. L’ideale 'quetzolcoáltico', infatti, mostra incredibili somiglianze con la teologia dell’incarnazione, riguardo all’umanizzazione di Dio e alla divinizzazione dell’uomo.
Con l’epoca della urbanizzazione, si sviluppa una nuova idea di Dio, caratterizzata dal potere, condiviso dall’uomo per proteggere la vita e trasformare il mondo. Attraverso la rielaborazione atzeca del mito di Quetzalcóatl, Dio assume il profilo del guerriero, simboleggiato dal sole, che ogni mattino nasce a nuova vita bagnato di sangue, per lottare tutto il giorno fino a morire, per donarci la vita. Attraverso il ricorso simbolico alle coppie antitetiche di vita-morte, notte-giorno, freddo-caldo, la teologia mesoamericana del sole vede l’uomo partecipe di una lotta permanente per la vita: combattere per consentire il trionfo della vita è fondamentale per ottenere il volto e il cuore di veri esseri umani. Ogni sacrificio si giustifica per il fatto che Dio muore ogni giorno per darci la vita; dunque, l’uomo deve disporsi a morire con lui per dar vita al popolo: viviamo per morire e moriamo per vivere. Da questa concezione del potere come espressione della lotta per la vita non derivano necessariamente conseguenze felici, soprattutto quando il potere si concentra in mano di pochi; il potere diviene così per la morte, opponendosi al disegno divino. È precisamente ciò che accadde con la violenza da parte delle grandi città nei confronti dei poveri, riducendo le migliori prospettive di umanizzazione precedenti e suscitando, di conseguenza, l’attesa del ritorno di Quetzalcóatl, nella speranza di un riscatto da parte dei contadini contro la prepotenza delle città. Ciò spiega come mai quando arrivarono gli spagnoli, molta gente pensò al ritorno di Quetzalcóatl, venuto per porre fine al dominio delle città; solo in seguito ci si rese conto che non si trattava di questo, ma di uomini crudeli assetati di oro e di sangue.
Come appare da questo profilo sintetico, all’alba della colonizzazione europea, vi erano delle propizie possibilità d’incontro tra la cultura religiosa indigena e il Dio cristiano. In realtà, anziché intraprendere la via della compatibilità, i conquistatori alimentarono il conflitto, che si venne radicalizzando: formalmente, come lotta tra il vero Dio cristiano e il Dio indigeno – in verità, Satana –; sostanzialmente, come scontro tra il Dio-oro dei colonizzatori e le antiche credenze indigene. L’unica speranza che rimaneva alla popolazione originaria era ben sintetizzata dal detto: «Se hanno ucciso il nostro Dio, che almeno noi non muoriamo». Da questo avvio non certo favorevole derivarono conseguenze disastrose per le possibilità d’inculturazione del Vangelo da parte della Chiesa, tanto che i primi concili messicani proibirono l’ordinazione di indios, neri e meticci, fino alla quarta generazione. In sostanza, era prevalso il dubbio che l’adesione al cristianesimo da parte degli indigeni non fosse autentica. Nonostante questa radicale diffidenza, non sono mancati, successivamente, tentativi d’incontro, che possono essere classificati secondo tre modalità: la giustapposizione, la sovrapposizione, la sostituzione. Solo recentemente avanza l’ipotesi di un processo di sintesi teologica propria dell’interculturalità.