Uno dei motivi dietro i crolli dei mercati nelle ultime settimane è che dovunque le grandi aziende hanno smobilitato i loro investimenti finanziari per procurarsi liquidità. Tutte hanno bisogno di dollari, perché i flussi di cassa in entrata si sono inceppati e serve denaro liquido “internazionale” per provvedere alle spese. Stiamo vivendo un’emergenza economica mondiale come se ne vedevano da decenni e non è certo il momento di fare i puntigliosi.
Però davanti a questo ammanco di cassa mondiale non è cattivo porsi una domanda tipica dei momenti critici: dove sono finiti i soldi? Negli Stati Uniti politici ed economisti ora lo vogliono sapere prima di tutto dalle compagnie aeree, che hanno chiesto – e ottenuto solo in parte – aiuti per oltre 50 miliardi di dollari per evitare bancarotte a catena. Gli analisti hanno guardato i loro bilanci e hanno rivelato, come ha mostrato un’analisi di Bloomberg, che negli ultimi dieci le principali compagnie aeree americane hanno speso il 96% della cassa che hanno saputo generare in operazioni di buyback.
Significa che hanno preso quasi tutti soldi guadagnati e li hanno spesi per ricomprarsi le loro azioni, attraverso operazioni di riacquisto (i buyback, appunto) che tolgono azioni dal mercato e fanno salire il prezzo di quelle che restano quotate: in questo modo i buyback aiutano i manager a centrare gli obiettivi di Borsa a cui è legata parte del loro compenso e intanto rendono più ricchi e soddisfatti gli azionisti. Ovviamente non lo hanno fatto solo le compagnie aeree. Grazie alla grande quantità di denaro disponibile grazie alle politiche delle banche centrali e, negli Usa, al taglio delle tasse con cui Trump ha permesso alle multinazionali di rimpatriare circa 150 miliardi di dollari, le aziende americane nel 2018 hanno fatto il record mondiale dei buyback: hanno speso tra gli 800 e i mille miliardi di dollari per ricomprarsi azioni. In un decennio il totale è attorno ai 5mila miliardi di dollari.
Felici i manager, felici i soci ma non l’azienda, che resta con meno denaro in cassa, e nemmeno la società più in generale, che anzi, diventa più diseguale perché aumenta la differenza tra chi vive di finanza e chi di economia reale. Il dibattito che si è aperto in questi giorni negli Stati Uniti su un tema apparentemente tecnico come quello dei buyback verte su una questione più generale: il senso dell’attività dell’impresa. Una grande azienda con la cassa piena ha mille modi per usarla in spese che aiutano lei e la società in cui opera: può investire, assumere personale, fare ricerca e innovazione. L’anno scorso abbiamo visto la gara mondiale delle aziende a comunicare il loro impegno per gli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite. In America, gli stessi manager che avevano appena usato il trucchetto dei buyback per spingere le azioni firmavano uno storico manifesto in cui annunciavano che era finita l’era della supremazia degli azionisti, ora il primo obiettivo era il bene della società.
Ancora un mese fa i titoli dei quotidiani finanziari italiani erano dedicati al grande 2020 delle “cedole”, con le società quotate a Piazza Affari pronte a distribuire 25 miliardi di euro in dividendi ai loro azionisti. Nel disastro economico in cui ci troviamo, alcune Spa quotate saranno costrette a rivedere i loro obiettivi di remunerazione dei soci (e magari anche dei manager). Nel momento critico diventa evidente che ciò che conta di più nella vita di un’impresa non è l’azione o l’azionista, ma la salute duratura dell’azienda e il suo ruolo nella società (soprattutto quando chiede di essere salvata con i soldi dei contribuenti). Il cambio di prospettiva verso la “sostenibilità” – economica, sociale e ambientale – di cui tanti hanno parlato negli ultimi anni adesso è diventato indispensabile e urgente. Potrebbe essere questo uno dei frutti buoni del tempo amaro che attraversiamo.