È emersa una variabile inattesa, colpevolmente sottovalutata dagli uomini forti dell’esecutivo, nella protesta sollevata dai sindaci sull’applicazione del decreto sicurezza. Riguarda il rapporto tra atti di governo e conseguenze territoriali e rischia di far saltare il banco nel delicato equilibrio tra Stato centrale ed Enti locali. Si tratta di una novità importante, che per adesso l’esecutivo si limita a controllare, facendo rientrare le contestazioni dei primi cittadini nella normale dialettica centro-periferie, grazie alla sofisticata strategia di comunicazione seguita sin dall’inizio della legislatura e all’opera anche in questa vicenda.
Lo schema consolidato è presto detto: a noi il consenso, agli altri attori istituzionali, sindaci compresi, il costo (alto) delle politiche anti-accoglienza regolata da attuare. A loro, i sindaci, gli oneri, a noi, vicepremier e ministri, gli onori. Tocca infatti ai primi cittadini applicare le norme restrittive decise dall’alto, senza consultare né il territorio né le realtà del Terzo settore impegnate da anni in queste attività. Ecco perché risulta provvidenziale, anche se tardivo, il segnale arrivato ieri dal presidente del Consiglio, che ha di fatto "convocato" i primi cittadini dicendosi disponibile a un confronto.
Ancora una volta è Giuseppe Conte a doverci mettere una pezza, come già con l’Unione Europea. Il problema che andava affrontato per tempo, nei mesi scorsi, va oggi gestito con urgenza. E questo in concreto significa spiegare a migliaia di stranieri in fila all’anagrafe comunale delle città cos’è cambiato, chiudere diversi centri Sprar nei piccoli centri, smistare piccoli e grandi flussi di persone nei quartieri, saper dosare il bastone e la carota qualora dovessero esserci problemi di ordine pubblico.
Abbandonati a se stessi, senza strumenti e alternative a disposizione, si è chiesto sinora ai sindaci di farsi carico nello stesso tempo di novità burocratiche dirompenti (il "no" alla residenza per i migranti chiude, solo per fare un esempio, le porte alla carta d’identità, ai servizi sanitari e ai centri per l’impiego) e di gestire, con intelligenza e umanità, le tensioni sociali legate al superamento dei vecchi luoghi e simboli dell’accoglienza.
È difficile non riconoscere lo stato di «oggettiva difficoltà» evocato dal presidente dell’Anci, Antonio Decaro. Si dirà, stando allo spirito dei tempi e al lessico salviniano: è il loro lavoro, sono stati eletti per questo, la «pacchia è finita». Il punto è che siamo di fronte a un preciso piano dell’attuale maggioranza di governo, di cui è difficile non accorgersi. Non c’è solo il dossier migranti a preoccupare chi vive sul territorio. L’ultima legge di bilancio ha chiesto ai Comuni di far fronte a tagli di fondi per centinaia di milioni di euro: per capirci, una città come Milano riceverà 65 milioni in meno rispetto al previsto.
Come far fronte a questi mancati trasferimenti? La via è obbligata: attraverso un innalzamento delle imposte locali oppure decidendo una riduzione dei servizi sociali per la popolazione. Chi ne risponderebbe politicamente? L’elenco potrebbe continuare, basti pensare ai fondi prima tolti e poi solo in parte reintegrati per il bando periferie, alla cosiddetta 'tassa sulla bontà' che ha conseguenze dirette per chi dal basso (e senza fini di lucro) assiste persone in difficoltà. Si dirà: anche in quest’ultimo caso, l’esecutivo ha promesso di metterci una pezza e lo farà.
Proprio questo è il punto: perché si deve arrivare sempre a ultimatum, intese in extremis (anche con l’Europa) ripensamenti dell’ultim’ora? Soltanto a pensare all’elenco di cose da fare (e promesse da mantenere) nel mese di gennaio, chi si occupa dell’azione di governo ha davanti a sé un compito da far tremare le vene ai polsi: scrittura dei decreti su Reddito di cittadinanza e «quota 100», abolizione della tassa sul non profit, adesso anche il tavolo con i Comuni sugli immigrati. Impegni che consiglierebbero di chiudersi nei rispettivi Ministeri e meditare misure precise, piuttosto che inondare la Rete di continue dirette social. Invece non cambierà nulla, probabilmente: è tutto così chiaro, nella strategia elettorale neo-centralista di Matteo Salvini e Luigi Di Maio, è stato tutto così scientificamente pianificato a tavolino, da rendere la prospettiva indicata logica e comprensibile alla 'pancia' del Paese, l’unica che davvero conta.
Comunicare ossessivamente e continuamente, riempire spazi nei palinsesti per accreditare un governo 'del fare', a fianco dei cittadini. Il lavoro sporco? Lo facciano gli altri, ovviamente, c’è altro a cui pensare. Ora però, con la protesta dei sindaci, è spuntata la variabile inattesa: scaricare il peso della responsabilità sui livelli più bassi (Enti locali, Terzo settore, sindacati: istituzioni e realtà che una volta si sarebbero chiamati 'corpi intermedi') non può pagare sempre, all’infinito. Prima o poi la coesione sociale e l’architettura istituzionale e sociale del Paese daranno segni di cedimento. È successo, sta succedendo, succederà ancora. Meglio pensare a un ravvedimento operoso in tempi brevi.