Sul fronte delle politiche migratorie da alcuni anni le cattive notizie piovono copiose. Muri, chiusure, respingimenti e tragedie costellano le cronache. Merita dunque un spazio speciale ogni buona notizia. E stavolta ne arriva una da oltreoceano. Il Consiglio cittadino di New York ha approvato a larga maggioranza l’allargamento del diritto di voto locale, come già per i cittadini statunitensi, agli immigrati regolarmente residenti in città da almeno un mese e in possesso di un permesso di lavoro. Manca ora solo la firma del sindaco De Blasio perché la norma entri in vigore.
Il diritto di voto locale esiste anche nella Ue per i cittadini dell’Unione, anche se in Italia è pochissimo conosciuto e promosso, e diversi Paesi lo ammettono anche per i cittadini di Paesi terzi con una certa anzianità di residenza: gli scandinavi, il Benelux, l’Irlanda; la Spagna e il Portogallo, con alcune limitazioni. Anche nell’altra America, nel Centro e del Sud, si tratta di un diritto anche antico e civilmente riconosciuto.
Restando in Europa, a livello comunitario si discute da tempo l’estensione di tale istituto a tutti i Paesi dell’Unione, riducendo una vistosa asimmetria sul piano dei diritti: tra immigrati residenti in Paesi diversi, tra immigrati con cittadinanza della Ue e immigrati che ne sono privi. Può sembrare una questione minore, ma non lo è. Il fatto che gli immigrati possano votare ed essere eletti in ambito municipale ed eventualmente regionale accresce la sensibilità degli amministratori locali nei confronti delle loro istanze. Oggi chi governa le città deve affrontare un netto squilibrio nel cosiddetto 'mercato politico': promuovendo politiche favorevoli agli immigrati ha elevate probabilità di perdere consensi tra chi vorrebbe escluderli, mentre non ha modo di far fruttare il sostegno di coloro che da quelle politiche trarrebbero dei benefici. Inoltre, mediante il diritto di voto la voce delle associazioni e dei movimenti degli immigrati troverebbe più ascolto e riconoscimento pubblico. Un passo utile e necessario se si considera che, nonostante che il fenomeno migratorio negli ultimi trent’anni sia diventato strutturale, questa voce è tuttora debole nel nostro Paese.
Gli esponenti dei cittadini stranieri potrebbero entrare a pieno titolo negli organismi che amministrano le città, portandovi il punto di vista di quella porzione di residenti che pur vivendo, lavorando, partecipando alla comune quotidianità, rimangono oscurati nei momenti decisionali. Gli stessi immigrati sarebbero più incentivati a interessarsi delle questioni locali e a partecipare attivamente al dibattito democratico.
La posta in gioco è quindi anche simbolica e politica nel senso più alto del termine: si tratta di definire chi fa parte a pieno titolo della polis e ha diritto di parola nelle scelte che riguardano la vita collettiva. È una questione di confini dell’appartenenza e del riconoscimento, di stabilire chi è nostro con-cittadino, legato a noi da una comune adesione al territorio e alle sue istituzioni.
Che la questione non sia semplice è confermato dal fatto che a New York importanti esponenti della minoranza afro-americana, anche all’interno del Partito democratico, non abbiano appoggiato la proposta: temono che il peso elettorale della loro base sociale si riduca, e quindi che i loro interessi siano meno tutelati. Chi ottiene meno risorse dal mercato ha più bisogno di quelle redistribuite dalla politica, e poterle controllare è più strategico.
Rimane quindi molto pertinente un’osservazione di Michael Walzer in 'Sfere di giustizia': le regole per cui alcuni decidono per conto di tutti rappresentano «la forma più comune di tirannia». Per questo la scelta di New York rappresenta un passo avanti nella direzione di una maggiore giustizia, e un esempio per altri attori e istituzioni che dovrebbero eleggerla a esempio da seguire.