Nel silenzio che si allarga dal mercoledì delle Ceneri –
memento quia pulvis es, et in pulverem reverteris
– s’inizia il tempo della
metànoia,
del cambiamento interiore. Ieri il Papa ha chiamato a questo capovolgimento del cuore. (Singolare distonia della Chiesa nel coro di voci che, tutte, oggi invocano il cambiamento dell’altro, sempre e solo dell’altro. Come una stecca nel coro, una limpida nota dissonante: la metànoia di cui parla Benedetto domanda conversione non all’altro, ma a noi).
Quadragesima, è il nome antico dei quaranta giorni alla Pasqua. Quaranta come i giorni di Noè sull’arca, come le albe di Mosè sul Sinai, come gli anni di Israele nel deserto. Un tempo, commenta il Papa, «di perseveranza», bastante a vedere in atto le opere di Dio e a decidersi per lui. Un tempo che ci si immagina scorrere più lento, e più grave; e che vorremmo meno assediato dal rumore. Quaranta giorni: come, anche, quelli di Gesù nel deserto. A questo tempo il Papa paragona la Quaresima. Quaranta giorni in cui Cristo restò solo con il Padre, in una intima solitudine cui si abbeverava; eppure proprio in quella pace muta di rocce e sassi, e stelle, qualcosa d’altro si insinuava e premeva. Come confusa con il vento una voce sussurrava e prometteva potere, e gloria. Nello stesso deserto colmo di Dio, la crepa di quella voce straniera.
«Questa situazione di ambivalenza descrive anche la condizione della Chiesa nel 'deserto' del mondo e della storia», ha detto il Papa. La Chiesa, cioè noi cristiani, ancora una volta in cammino verso una Pasqua che dica che la morte è vinta, e la pietra del sepolcro divelta. Ma, intanto, eccoci in questo spazio di quaranta giorni in cui vorremmo, ci proponiamo di cercare un nuovo sguardo. In cui cerchiamo magari momenti di silenzio e di verità su noi stessi, che illuminino la fatica opaca, o il dolore; ma alla cella dei nostri deserti preme il mondo. Sono echi e boati, e grida di protesta, e scandalo, e meschinità, o anche solo il chiacchiericcio di parole inutili, di promesse vane; valanga di rumore che costantemente ci si rovescia addosso, e senza che ce ne accorgiamo ci stordisce. Il deserto può essere anche un brusìo opprimente di voci, una cacofonia stordente che, senza negare esplicitamente un senso ai nostri giorni, ci annichilisce fino a che nemmeno più lo cerchiamo. Stretti fra i nostri due deserti procediamo, qualche volta scoraggiati. Porterà poi davvero a una mèta questo cammino, questa lancia nel fiume del tempo che ogni anno ritorna e domanda che ci mettiamo per strada verso la Pasqua, verso la Resurrezione? E sembra di sentire lo scalpiccio dei nostri passi faticosi, o cinici, o abituati. Convertirci? Noi? Via, come ci si può credere davvero. Ma, dice il Papa, «anche per la Chiesa di oggi il tempo del deserto può trasformarsi in un tempo di grazia: anche dalla roccia più dura Dio può far scaturire l’acqua viva».
Perché quell’acqua che disseta non viene da noi; non dal nostro anche onesto affannarci, ma dallo squarcio inaspettato della roccia che svela, dove tutto sembrava morto, una fonte. E noi? Noi possiamo soltanto camminare nel deserto, zitti abbastanza per sentire il fiato del vento; curvi sotto i nostri fardelli, e perseveranti, per non lasciarci sommergere da chi sussurra o grida che andiamo soltanto verso il nulla. In quel deserto lungo quaranta giorni pellegrini, che umilmente, piano, vanno. Certi che, come vuole e dove vuole, in questa polvere si alzerà un’alba nuova. (Forse la nostra moderna fatica a credere sta nel pensarci noi, con la nostra scienza e potenza, i veri motori e artefici della salvezza).
Camminiamo per i nostri metropolitani deserti, ben certi che, lì, non potrà crescere un solo filo d’erba. Dimentichi del Dio che spacca le rocce e ne scaturisce sorgenti; del Dio di Israele nel deserto, del «primo amore tra Dio e il suo popolo», dice il Papa. Forse la legge del deserto lungo quaranta giorni sta nel non pretendere di misurare Dio con la nostra misura, nel non pensare di organizzarne la grazia. Ma semplicemente nel domandare; inermi, mendicanti, la mano aperta e vuota.