Questa è la storia del numero 66. Del sessantaseiesimo suicida nelle carceri italiane da inizio anno.
Non è l’ultimo: l’ultimo a oggi è il numero 70, secondo Ristretti Orizzonti una delle associazioni che seguono puntualmente le vicende delle carceri. Dunque, questo numero 66, uno fra i tanti, si chiamava Dahou e aveva 26 anni. Era arrivato dal Marocco dieci anni fa, quando ne aveva 16, un ragazzino.
(Arrivato, si può supporre, per mare).
Tentava la fortuna. Senza documenti, senza lavoro, aveva finito con lo spacciare. Dentro, fuori, dentro di nuovo. L’ultima volta l’hanno beccato con la roba a bordo di un motorino. Un pesce piccolo. Da qualche mese dava segni di squilibrio mentale. Non appena è stato arrestato ha chiesto di telefonare alla madre, in Marocco. La chiamava tutti i giorni ormai.
Chiamava la mamma come un bambino che si è perso. Finché a settembre un giorno si è impiccato in cella. L’hanno soccorso quasi in tempo, l’hanno portato in ospedale. Coma farmacologico, è morto il 1° ottobre.
26 anni. Avete un figlio di quell’età, avete in mente i suoi occhi? Non vi sembra ancora un ragazzo? Dieci anni passati a tentare, da solo, la fortuna in Occidente: irregolarità, lavori in nero, fame, droga, carcere, carcere ancora. Speranza, zero. Nella cella di una galera sovraffollata e invivibile Dahou si è arreso. Il numero 66, dal 1° gennaio 2022.
L’identikit dei detenuti suicidi somiglia spesso a quello di Dahou. Giovani audaci che ci hanno provato, sfidando il mare.
Che sono finiti nel caporalato, o nella bassa manovalanza dello spaccio. (Alcuni, anche, italiani: figli difficili, persi di vista, figli naufragati). La vita li ha travolti. Il carcere ha chiuso il cerchio: il mondo come un inferno. Aspettare di uscire? Per rifare quella vita miserabile? Pare difficile ammazzarsi in una cella nuda, ma se si è disperati davvero basta un lenzuolo, e una sbarra. A volte, come nel caso di Dahou, i secondini se ne accorgono in tempo, e finisci in coma. I più avvertiti allora tappano la serratura con della plastica (quasi un cartello su una porta d’albergo: «Non disturbare»). E così muoiono subito.
Come il numero 70, marocchino anche lui, anche lui a Sollicciano, il 13 ottobre. Di anni ne aveva 29. «Una strage di cui non si vede la fine», per la Uilpa, sindacato di polizia penitenziaria. «Un sistema carcerario alienante e incivile», per il garante per le carceri della Regione Toscana. Vero dev’essere, se dal 2000 a oggi nelle nostre carceri si sono ammazzati in 1.291.
Ma quanto scivolano via veloci le notizie di questi morti sul web non le clicca nessuno, sui giornali e in tv non trovano quasi mai spazio – e non per rispetto. Le quaranta paia di scarpe che Ilary Blasy rivuole indietro da Totti, quelle sì interessano. Non queste storie oscure di ragazzi bruni, spesso stranieri (stranieri sono il 35 % dei detenuti), facce guardate fin dall’inizio con sospetto: altri da noi, invasori da rispedire indietro. Se poi finiscono dentro, fatti loro.
Se poi alla fine si ammazzano, nell’indifferenza dei più non mancherà qualcuno che pensa: uno di meno. Non è, quasi invisibile, una guerra anche questa?
Gli indesiderati, i 'clandestini', i messi al margine – come i rifiuti spinti dal vento nelle insenature della costa – abbiano il destino che vogliono. Il destino che, per qualcuno, si meritano. Quell’elenco di morti su ristretti.org, se lo andate a vedere, toglie il fiato. Solo in agosto, nel torrido agosto di quest’anno, sedici: uno ogni due giorni, nelle celle sovraffollate. E guardate, leggete gli anni. 26, 24. Certo, anche adulti: ma quanti ragazzi. (Li avete in mente, a quell’età, i loro occhi?).
Dicevamo, è una faccenda di cui in realtà non importa quasi a nessuno, se non ai soliti generosi e ai cappellani e ai volontari. Una faccenda che non fa audience. Però, se il ministro della Giustizia di questo nuovo governo di destra si chinasse su questa strage nel buio. Darebbe un segno: di che governo è, oltre le parole, davvero, di che idea ha di quanto vale un uomo.
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