Caro direttore,mi permetto di scriverle perché è bello poter raccontare cose-azioni belle e positive, che nella loro semplicità aiutano a guardare lontano, che ci permettono di sperare, che ci confermano che si può fare, che certi obiettivi non sono chimere. Se dovessi dare un titolo a tutto questo, sarebbe: «Un’altra Italia».Dall’8 di giugno, la mia famiglia ospita in casa sei rifugiati, tutti dell’area a sud del Sahara: due dal Ghana, due dal Gambia e due dalla Nigeria. La loro età va dai 19 anni ai 31. Tre di questi sono già sposati e hanno un figlio a testa, famiglie che sono rimaste in Africa. I più giovani non hanno più i genitori. Tutti hanno una storia da raccontare che certamente non è edificante, anzi in alcuni casi è indicibile. Ti domandi come sia possibile che nel 2015 accadano certe cose. Una umanità ferita, come purtroppo ce n’è anche qui da noi.Spesso, in questi giorni, ci siamo domandati perché l’abbiamo fatto. Perché noi? E alla fine la risposta è sempre stata perché siamo persone «fortunate». Non siamo stati solo noi a dir di "sì". Con noi ci sono tutte quelle persone che lungo la nostra storia ci hanno insegnato che non solo si può, ma si deve fare. Che ci hanno accompagnato durante il nostro cammino familiare, che gratuitamente ci hanno aiutato nei momenti difficili. E vi garantisco che, con quattro figli, ce ne sono stati molti (e ce ne saranno ancora). Persone che senza "suonare le trombe", con la loro presenza hanno saputo aprire i nostri orizzonti, farci apprezzare la vita nelle sue piccole, ma fondamentali, epifanie.Persone che hanno testimoniato con il loro sapere e con il loro fare il valore straordinario del dono. Quante famiglie potrebbero scrivere cose simili e magari ancora più belle e significative? Tante, ne sono sicuro. E questo è il bene, il "capitale più prezioso dell’umanità" che dobbiamo far circolare, su cui dobbiamo "investire". Un bene che vale per tutti: atei, agnostici, religiosi.Quindi alla fine chi ha accolto questi "disperati" è stata una famiglia. E, insieme, una comunità che – in modo diretto o indiretto – ci sostiene spiritualmente e concretamente. È bellissima da sperimentare e da scrivere: se abbiamo detto "sì", è anche perché viviamo in una comunità che ci ha insegnato ad accogliere, a condividere, nel tanto e nel poco. Una comunità che – indipendentemente dal credo, dalle idee politiche, dal colore della pelle – quando c’è da aiutare, si "tira su le maniche" e via, e vai, non chiacchiera e agisce.Il nostro "noi" è un "noi" grande, fatto di tanti piccoli ma significativi gesti e di tante semplici ma incredibili persone.C’è Giovanni che si presenta uno dei primi giorni, mai visto prima, giornalista in pensione. Ha vissuto per anni negli Stati Uniti e si rende disponibile (gratis) a insegnare l’italiano (visto che i nostri ospiti parlano tutti un inglese-africano). C’è Walter, un pensionato vicino di casa, che si è reso subito disponibile a fare un orto insieme con i nostri ragazzi africani… e dopo un mese già raccogliamo i frutti del suo e loro sudore. C’è una famiglia di agricoltori che, dopo una settimana, mi scrive e mi dice che garantisce frutta di stagione a tempo indeterminato e costo zero. L’importante è che nessuno lo sappia. Ci sono gli studenti delle superiori e i giovani del paese che vengono a trovare spesso i nostri ospiti, avviando uno scambio culturale di grande utilità per ambo le parti. Ci sono signore e signori che si presentano al cancello e portano di tutto: verdure, frutta, pesce, carne, piatti già cotti. Per non parlare di quelle/i che portano vestiti o, ancora più significativamente, si mettono a disposizione, donandoci il loro prezioso tempo. C’è Giulia, una psicologa giovane, ma da anni attiva per queste situazioni, che ogni settimana fa terapia di gruppo e personalizzata. C’è Valentina, una signora del paese che aveva perso il lavoro e che aveva bisogno di lavorare per la famiglia che è stata assunta dalla Cooperativa di appoggio, ed è bravissima tuttofare in casa e fuori quando serve (a cominciare dalle questioni sanitarie). C’è, appunto, una cooperativa che ci sostiene e che gestisce la questione economica (i famosi trenta euro al giorno per ogni profugo…) con un senso del servizio unico. C’è Anna Maria, una signora che ha il dono del cucinare e quando non è a lavorare si presenta e si mette ai fornelli, e ci pare di stare al ristorante! C’è insomma un mondo che testimonia altro, c’è un’altra Italia. Ricordiamoci che siamo anche questo.Assieme alla mia famiglia dico grazie a tutti voi, che ci avete aiutato e che ci aiutate ogni giorno a confermare il nostro "sì". A dire che è semplice fare il bene.
Antonio Silvio Calò