Basta offrire una manciata di soldi per scansare una condanna per 'atti persecutori', alias 'stalking'? Oggi, in effetti, è così, e la constatazione ha provocato, in questi giorni, una levata di scudi pressoché unanime alla notizia della sentenza di un giudice torinese – peraltro già impugnata dalla Procura generale – che, preso atto dell’offerta di un risarcimento di 1.500 euro, ha prosciolto l’imputato per estinzione del reato. Va premesso che per il delitto in questione il codice penale, all’art. 612-bis, prevede la reclusione da sei mesi a cinque anni, incombente su «chiunque, con condotte reiterate, ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita»; e ci si accorge subito che la casistica riconducibile alla fattispecie è, potenzialmente, assai ampia, anche quanto a gravità delle possibili modalità in cui il reato può realizzarsi.
D’altronde, grave o no, il delitto di cui si tratta non è, di regola, perseguibile se la vittima non propone querela (si procede d’ufficio solo in casi particolari, quali quelli di vittima minorenne o disabile); inoltre, la querela può sempre essere 'rimessa' (cioè ritirata) nel corso del processo, a meno che il fatto sia stato commesso con minacce reiterate a danno del coniuge o di persona legata al reo da relazione affettiva. E sono proprio questi particolari, combinati tra loro, ad aver fatto rientrare lo 'stalking' nell’ambito applicativo dell’art. 162-ter del codice penale, introdotto da una legge del giugno scorso e grazie al quale, in tutti i «casi di procedibilità a querela soggetta a remissione», il risarcimento del danno o una congrua offerta risarcitoria, accettata o no dalla vittima, estinguono il reato, liberando l’imputato da ogni ulteriore conseguenza dell’illecito commesso. Fioccano ora i propositi di una rapida modifica normativa; e in tal senso si è espresso lo stesso ministro Orlando.
C’è tuttavia da domandarsi se la soluzione migliore sia quella che sembra riscuotere i più ampi consensi, imperniata su un unico obiettivo: eccettuare, in tutto e per tutto, gli 'atti persecutori' dalla categoria delle fattispecie cui si applica l’art. 162-ter. In tal modo, in effetti, si tornerebbe a rendere sempre obbligatorio l’infliggere, al colpevole di stalking, una pena detentiva, cancellando la stortura che oggi si lamenta: quella della monetizzazione al ribasso come risposta dello Stato a condotte che offendono la dignità delle relazioni affettive e sono spesso prodromi di crimini come il femminicidio o altre gravissime violenze. Nei casi di minore gravità, il giudice verrebbe tuttavia posto di fronte a un’alternativa, che può lasciare perplessi nell’uno e nell’altro corno: per un verso, infatti, se egli si risolvesse a condannare a una pena vicina al massimo – così da escludere la possibilità di concedere la sospensione condizionale – verrebbe sostanzialmente a equiparare comunque il trattamento del reo 'minore' a quello del colpevole di ben altre minacce o molestie; per altro verso, se invece facesse in modo di concedere la condizionale lascerebbe la vittima, non meno di oggi, senza un’efficace tutela preventiva contro il rischio della ripetizione della condotta persecutoria. In realtà, quella che va assolutamente garantita, nel caso di stalking ('grande' o 'piccolo'), è, anzitutto e soprattutto, proprio questa tutela: il che potrebbe avvenire pur senza rendere obbligatorie, nei casi di minore gravità dello stalking, la pena detentiva e l’esclusione dell’effetto estintivo del reato, oggi conseguente al risarcimento del danno.
Occorrerebbe però introdurre un divieto, di congrua durata, di ulteriori tentativi di presa di contatto, fisico o telefonico o d’altro genere, nei confronti della vittima, facendone oggetto di una misura ad hoc e autonoma, da accompagnarsi necessariamente alla sentenza che dichiari estinto il reato a causa della condotta riparatoria; e ovviamente bisognerebbe assicurare la predisposizione di controlli tempestivi ed efficaci circa l’osservanza del divieto, con adeguate sanzioni – carcere, a questo punto, compreso – come conseguenza di eventuali violazioni. Si tenga del resto presente che l’adozione di misure cautelari come il divieto e l’obbligo di dimora in un determinato comune – e, più specificamente, il divieto di «avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa» (una sorta di Daspo sui generis) – possono già oggi disporsi in via cautelare, nel corso di un processo penale, a carico della persona indagata o imputata; ed è bene che sia così.
La nuovissima versione del 'codice antimafia' ha, poi, addirittura esteso agli indiziati di stalking una vasta gamma di 'misure di prevenzione', applicabili senza che neppure risulti instaurato alcun procedimento penale (il che riflette una 'logica del sospetto' che, tanto più quando raggiunge ambiti lontanissimi dal tradizionale terreno della lotta alla criminalità organizzata, suscita invece, e non a torto, serie obiezioni). Nessuna misura del genere, viceversa, è consentita come effetto di un autentico accertamento giudiziario a seguito di un 'giusto processo' penale. Non sarebbe il caso di pensarci?