Interculturalità, princìpi, diritti umani
sabato 20 maggio 2017

La sentenza della Corte di Cassazione sul pugnale dei sikh, e sugli spazi della convivenza inteculturale in Occidente, ha un duplice merito. Ha aperto con intelligenza un dibattito ricco e articolato, affermando un principio per sé condivisibile, anche se meritevole di un’interpretazione saggia ed equilibrata. La condivisione riguarda i limiti che l’identità culturale e religiosa incontra quando sono in gioco princìpi e diritti della persona messi a rischio da costumi o specifici comportamenti. Lo affermano le moderne costituzioni democratiche, lo dichiara l’articolo 9 della Convenzione europea del 1950, per il quale le uniche restrizioni possibili riguardano la sicurezza, la salute o la morale pubblica, i diritti e le libertà altrui. Nell’applicazione specifica della Cassazione può convincere anche il divieto del pugnale dei Sikh che, in quanto configurazione di un’arma, incide sulla sicurezza pubblica, per i rischi che può comportare.

La riflessione sulla sentenza, però, deve essere più ampia. Anzitutto, proprio sulla questione del pugnale. Non tutti sanno, ad esempio, che in Italia si è avviato da tempo un confronto con i rappresentanti dei sikh per ipotizzare una trasformazione del pugnale sacro in un oggetto di cui si accentui il profilo simbolico diminuendone il carattere di pericolosità, ipotizzandone così una piena legittimità. In pratica, si propose di ridurre la sua lunghezza, togliere l’affilatura della lama, inserire l’oggetto così ridotto in una custodia chiusa. In questo modo, esso manterrebbe un valore simbolico (la lotta contro il male) ma sarebbe privato di ogni elemento d’offensività. Su questa strada, che è oggetto di dibattito anche in altri Paesi, si potrebbe accettare una tradizione religiosa rendendola compatibile con i nostri princìpi; e ad essa sono ispirate alcune sentenze di merito, in Italia e altrove, che hanno valutato la pericolosità concreta dell’oggetto, che può essere minima o non esserci affatto.

È opportuna poi un’ulteriore riflessione sulla pronuncia della Cassazione, quando afferma che è necessario da parte degli immigrati il rispetto dei «valori di riferimento» delle nostre società, e che «l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel Paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitanti». Ciò, soprattutto, per evitare che si giunga «alla formazione di arcipelaghi culturali configgenti, a secondo delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro Paese che individua la sicurezza come un bene il divieto del porto d’armi e di oggetti atti ad offendere». Su questo versante, l’apprezzamento di massima deve accompagnarsi con la segnalazione di un rischio, della possibile strumentalizzazione del principio da parte di chi sostiene una sorta di “sovranismo valoriale” su temi e argomenti che invece devono essere ispirati ai criteri, anch’essi di rilievo costituzionale, della libertà e dell’accoglienza.

Si pone qui il problema, tipico delle società nelle quali crescono diversità culturali e religiose, d’individuare il confine tra compatibilità e incompatibilità degli atti e comportamenti delle persone con i valori, direi meglio con i princìpi costituzionali e i diritti umani, delle società occidentali. L’indirizzo odierno della Cassazione, tra l’altro, chiude le porte ad alcune sentenze di merito che in passato sono sembrate indulgere a un multiculturalismo rigido e illiberale. Essa conferma la necessità che il nostro ordinamento tuteli e difenda tutti contro le violazioni della libertà religiosa, contro ogni violenza, o pratiche tribali (come l’infibulazione), o l’incitamento a punire chi disobbedisce a obblighi confessionali, con fatwa di istigazione a reati.

E intervenga attivamente per garantire la libertà matrimoniale contro il fenomeno dei matrimoni combinati, delle cosiddette spose bambine, o eventuali pretese d’introdurre la poligamia; e tutelare chi subisce maltrattamenti fisici (o peggio) in famiglia o fuori per scelte personali legittime. Ancora, una società fondata sui diritti umani non può accettare l’introduzione della sharìa per via diretta o indiretta (attraverso i cosiddetti arbitrati), deve respingere ogni forma di soggezione della donna, e assicurare la libera determinazione dei ragazzi nelle loro scelte di vita e di comportamento. Siamo di fronte a un orizzonte di applicazione dei diritti umani per estendere a tutti (giovani, stranieri, immigrati) i princìpi, i diritti, che sono maturati nel cammino storico, e che giovano oggi a costruire una società umana, solidale, aperta al futuro. Però, nella costruzione di questa società sono preminenti anche i valori dell’accoglienza e del rispetto della diversità, anzi sono parte integrante dello stesso progetto umanistico.

La sentenza della Cassazione, allora, può essere l’occasione per ribadire il rifiuto d’ogni tendenza all’omologazione, a una sorta di protezionismo di elementi della nostra cultura che possono declinarsi diversamente, in una varietà che costituisce un valore aggiunto per una società democratica. Il rispetto per la libertà religiosa, anzitutto, esige di dare a tutti gli strumenti per manifestare e professare, la propria fede, fruendo degli edifici di culto, delle provvidenze garantite dal diritto comune, respingendo uno spirito di diffidenza, di estraneità, che serpeggia in alcuni settori sociali e politici. Il principio di compatibilità dovrebbe poi, contribuire a cancellare il divieto, privo di qualsiasi fondamento, del velo islamico, o altri simboli religiosi, che non violano nessun diritto umano. In Italia abbiamo evitato, in virtù della nostra tradizione di tolleranza, ogni guerra del velo, e sappiamo ben distinguere il velo dal burqa che investe invece la dignità della donna, e la stessa sicurezza pubblica. Devono essere soddisfatte altre esigenze degli immigrati, il loro dinamismo culturale, le festività religiose, le prescrizioni alimentari, e via di seguito.

Mentre si presenta urgente la necessità di rispettare ogni religione, le nostre e quelle degli altri, senza cedere a una spinta ideologica e iconoclasta che porta a teorizzare (e praticare) il diritto di offendere, con le più assurde oscenità, l’interiorità del sentimento religioso individuale e collettivo, invocando un presunto diritto di satira che diventa diritto di offendere la dignità della persona. Siamo di fronte, quindi, a un dibattito utile, un’occasione per ricordare che il rispetto per gli altri, la loro cultura e religione, costituisce la base di ogni democrazia e a esso deve ispirarsi la formazione delle nuove generazioni, che dovranno costruire una società libera, nella quale nessuno si senta estraneo, emarginato, o avverta un’aura di diffidenza e malcelata ostilità.

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