l primo allarme, lanciato con un sms da un sopravvissuto. I telefoni che nell’albergo di Farindola suonano a lungo, ostinatamente muti. Ci sono più di trenta persone lassù, sotto al Gran Sasso, ma nessuno risponde. I soccorsi partono che è ormai buio. La strada è sepolta da oltre tre metri di neve, è travolta da massi, e da alberi con le radici per aria. Non ce la fanno le grosse jeep dell’Esercito, non ce la fanno nemmeno gli spazzaneve. Una colonna di mezzi di soccorso si blocca tra due muraglie di neve, i fari accesi, i lampeggianti che illuminano a intermittenza di un bagliore azzurrino la montagna ghiacciata. (E intanto, lassù, forse qualcuno è vivo, qualcuno prega, forse qualcuno aspetta).È allora che le squadre del soccorso alpino della Guardia di Finanza si mettono in marcia.
C’è un video, sul web. È notte fonda ormai e attorno c’è tempesta. Si sente bene l’ululato torvo del vento fra le montagne, come una voce cattiva. Si vede bene la neve che cade, rabbiosa, a mulinelli; si immagina quasi come quei fiocchi, sulle guance degli uomini, brucino. Le jeep affondano, gli spazzaneve sono inerti, e adesso è l’ora degli uomini.Semplicemente dei piedi, delle gambe di uomini abituati alla montagna. I cingoli dei mezzi sono incrostati di ghiaccio, i motori potenti di centinaia di cavalli non muovono le ruote impantanate, l’energia elettrica è caduta. Ma le gambe degli uomini vanno invece, procedono tenacemente in questa notte d’inferno, dove il terremoto e un’onda di gelo artica si sono dati un maledetto convegno. Il cellulare di un collega inquadra i soccorritori, hanno una torcia sulla fronte e procedono a capo chino.
La neve dura scricchiola sotto gli sci. Vanno di buona lena. Non c’è dubbio, almeno loro arriveranno. (I possenti motori dei mezzi di soccorso che girano in folle, il loro rombo impotente, nella notte). Quelle gambe, quelle facce in marcia sopra a tre metri di neve fanno pensare. Come anche le immagini di certi salvataggi di questi giorni, in contrade sperdute colpite dal sisma e dalla tempesta. Posti irraggiungibili perfino per le turbine degli elicotteri. Ma qualcuno dei soccorritori si è inerpicato fin lassù: le foto raccontano l’istante in cui con delicatezza sorreggono vecchi smarriti, avvolti in coperte, e tenendoli dolcemente per mano li tirano fuori dalle loro case. Le mani, ecco, quelle mani tese, dentro ai grossi guanti. Soltanto gli uomini restano, quando i motori e le tecnologie più potenti si fermano. Arrivano, certo, a fatica, con sforzi di cui non si sarebbero creduti capaci, con rabbia, in una drammatica sfida. Magari, a momenti, si teme che non ci sia più nulla da fare. (È inutile, è inutile, sibila quel vento cattivo). Eppure si va, per una testarda speranza.
Chi è a casa, magari, stenta a capire. Magari si scandalizza che tante ore ci siano volute per raggiungere l’hotel sommerso dalla slavina. Chi è a casa forse arriva a polemizzare coi tempi della Protezione civile. Ma bisogna capire che cosa è un terremoto con sopra tre metri di neve, in zone impervie e disabitate o quasi. Quando i telefoni non funzionano, i motori tacciono, i cingoli si fermano, e i mezzi di soccorso si accodano, fermi, arresi. Solo pensando a questo si può capire la ostinazione di quegli uomini con gli sci ai piedi, cocciuti, nella notte. E, nei paesini feriti, lo scavare coi badili, e il prendere in braccio i vecchi intrappolati nelle cascine. Le gambe, le braccia, le mani: in una notte d’inferno restano solo gli uomini, infine. Che vanno avanti, e si affannano a rimuovere rovine. I cani non sentono più nulla, e non si muovono. Ma, forse, là sotto, protetto da una trave, qualcuno ancora respira? Quelle mani, quelle voci spezzate dalla fatica, che non si arrendono. È nei giorni d’inferno, che si riconoscono gli uomini.