Fiori e immagini sacre ricordano i civili morti nel bombardamento di un edificio a Izyum in Ucraina - Ansa/Afp
Vorrei sottoporre ai lettori di questo giornale una considerazione in poche parole, probabilmente un po’ ingenua, ma che mi viene da dentro, e che si può riassumere così: i morti sono arruolati alla guerra. Pressoché giornalmente, i mass-media ci comunicano il numero dei morti dell’esercito russo (890 al dì, comunicano i servizi segreti britannici, per un totale – si dice – ormai oltre quota 200mila), ma nulla ci dicono dei morti dell’esercito ucraino. Al contrario, ci vengono comunicati i morti della popolazione civile ucraina (giunti – si dice – ad oltre 7.000) ma non ci vien detto se ci siano morti civili anche nei territori delle repubbliche secessioniste del Donbass e quanti eventualmente siano. Come se i morti non fossero solo morti, vite spente, anche se con “la divisa di un altro colore”, come se i morti degli altri non avessero anch’essi diritto alla pietà e al ricordo sebbene militassero dalla parte sbagliata. Non sono così ingenuo da non capire che questa disparità è, essa stessa, parte di una strategia della guerra, ma questo non mi impedisce di ricordare il titolo di una vecchia canzone della Resistenza “Pietà l’è morta”.
Probabilmente la guerra è sempre stata così: un crimine dove la prima vittima è l’umanità di ognuno. Il carattere alluvionale, con cui la comunicazione su questa guerra entra nelle case di tutti a ogni ora del giorno, ha, però, trasformato il cinismo della propaganda in un cinismo di massa, dove ci si compiace dei morti del “nemico” come fossero scalpi appesi sull’uscio dei nostri condomini e si piangono i morti civili “nostri” con il pensiero che quelli degli altri, alla fine, “se lo sono meritato”. Per questo vittime di questa guerra siamo anche noi, perché un immaginario bellico e cinico si è impadronito delle nostre anime e ne ha estirpato il sentimento che dice “Fratelli tutti”. Quanto ho appena scritto mi porta a ragionare su “L’orologio della guerra. Chi ha spento le luci della pace”, l’agile e bel libro di Antonio Cantaro (in uscita in questi giorni per i tipi di Ntsmedia). Testo con cui vorrei imbastire qui un breve dialogo. Il libro parla di questa guerra che, oltre che l’Ucraina e le vite di tutti coloro che la combattono, distrugge anche la nostra umanità e ci dice che essa ha anche spento le nostre menti.
Lo stallo. Lo stallo, tra offensive e controffensive degli uni e degli altri, sembra la situazione attuale delle operazioni belliche, Ma questo stallo non si registra solo sui campi di battaglia. Né è solo lo stallo della diplomazia, che non è stata mai schierata, dall’inizio e fino a oggi. È anche lo stallo del pensiero. Già dalle prime settimane non c’è stata discussione che potesse iniziare senza dichiarare che «c’è un aggredito e c’è un aggressore »: il che è ovvio, ma veniva, e viene, premesso come per ammonire a non andare più in là. E ogni discussione si è chiusa, e si chiude, con l’accusa, a chi si oppone all’invio delle armi senza limiti e condizioni, di volere solo la resa dell’Ucraina e la vittoria dell’invasore. Tutto si chiude, va in stallo appunto, con la farisaica contrapposizione tra la pietà per i morti e l’amore della libertà, della democrazia e del diritto. Il libro di Cantaro avverte che la ragione ci dice che il discorso non finisce affatto qui, perché di questa storia dell’Ucraina c’è un inizio che la trascende e una fine che va oltre.
L’inizio. Papa Francesco l’aveva detto subito che da tempo l’Occidente «stava abbaiando alle porte della Russia». E il libro di Cantaro segue questo percorso mostrando le tappe dello stravolgimento dell’intesa tacita, che Gorbaciov credeva di aver conseguito, su di un «nuovo ordine mondiale», denuclearizzato, multipolare, fondato sulla collaborazione politico-economica tra Est e Ovest: dal rifiuto occidentale di aiutare la Russa in crisi dopo il crollo dell’Unione Sovietica, all’appoggio al colpo di stato di Eltsin e al trapasso della Russia nell’orbita dell’Occidente, dall’ingresso di Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia nella Nato, alla guerra del Kossovo; dall’invenzione delle operazioni Nato «non art. 5», all’aggressivo revanscismo di Putin; dagli ulteriori allargamenti a Est della Nato, fino alla “rivoluzione di Maidan” dalla quale ha origine l’attuale guerra russo-ucraina. L’aggressore è colpevole, ma nessuno è innocente.
L’orizzonte. Ma a questo il libro aggiunge un allargamento del quadro che ridetermina la comprensione di questo conflitto e dei suoi possibili esiti. La Russia è solo la tappa di una strategia globale che guarda alla Cina. Gorbaciov non aveva capito che la sua era solo una “pace cartaginese”: l’Occidente aveva vinto e la sua vittoria lo aveva convinto di essere il “destino del mondo”, lo aveva convinto che la sua democrazia e il suo libero mercato lo avrebbero eletto a unico perno di un nuovo ordine mondiale. E questa vittoria si sarebbe dovuta completare non col tempo, ma subito. Subito, perché chi potrebbe mai contrastare un nuovo ordine mondiale, democratico ma unilaterale, era, ed è, la Cina, una potenza autocratica che, però, conta non tanto per gli armamenti che già possiede ma soprattutto per la potenza economica che esibisce, perché l’economia che lo sostiene è un’economia capitalistica che mostra capacità di sviluppo inaudite. Questo antagonista va, allora, contrastato subito, prima che il suo sviluppo tecnologico si possa trasferire nel campo degli armamenti e prima che la sua economia eguagli quella dell’Occidente. Questo si legge a chiare lettere nelle politiche dell’amministrazione Trump verso la Cina, questo ha detto più volte apertamente Joe Biden e questo proclama senza mezzi termini il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. La Russia con il suo arsenale nucleare e con le sue pretese di grande potenza è un ostacolo su questo cammino e perciò va tolta di mezzo.
Fin dove questo conflitto. Ma questo muta radicalmente i ragionamenti su questo conflitto. La Russia deve essere tolta di mezzo e la vittoria dell’Ucraina è il modo di toglierla di mezzo. Ma tutti, e a ragione, ripetono che Putin mai accetterà la sconfitta nella battaglia che ha iniziato, e che combatterà a oltranza. Il disegno strategico, che muove l’Occidente e che gli fa dire “non si può abbandonare l’Ucraina e dunque avanti sino alla vittoria”, si basa su di una serie di scommesse che è necessario rendere esplicite: la prima è che la superiorità tecnologica nella guerra convenzionale dell’Occidente sia tale da consegnargli una prossima e sicura vittoria sul campo; la seconda è che la sconfitta provochi un colpo di Stato in Russia che abbatta Putin prima che giunga a usare il nucleare; la terza è che l’abbattimento del tiranno insedi la democrazia invece che un altro tiranno che faccia quel che Putin non ha (ancora) fatto, e cioè che usi l’atomica. Già questo legittima a opporre allo stallo di oggi la domanda: ma fin dove il mondo è disposto a correre i rischi di queste scommesse? C’è, però, dietro tutto questo, una scommessa più grande. Nessuno può pensare che la Cina non sia in grado di capire che quel che sta succedendo la riguarda direttamente, anche perché Biden e Stoltenberg glielo hanno detto ripetutamente e a chiare lettere. E allora non è difficile pronosticare che, quando vedrà che si profilano la sconfitta della Russia, il passaggio di questa al campo occidentale e l’apertura di una frontiera di 6.000 km con la Siberia dove si potrebbero schierare le truppe e le testate nucleari di chi progetta il suo assoggettamento, potrà riconsiderare la sua attuale “neutralità” e passare a un sostegno attivo di quella Russia che, alla fine, le garantisce lo status quo su cui conta per la sua crescita. Questo è, allora, un altro rischio, un rischio ancora più grande, sul quale interrogare chi propugna sicuro “avanti fino alla vittoria”. E allora: fin dove avanti in questa guerra?
La prospettiva della verità. Anche questo dice il realismo per il quale Francesco, che vede la guerra mondiale non più a pezzi e parla solo per l’umanità, è stato “crocifisso”. E questo realismo dice anche che la pace non si può costruire che sul terreno della verità. Il presidente Mattarella ha invocato «una sede internazionale che rinnovi le radici della pace» e tutti ripetono che «non è data alcuna fine della guerra senza accordo delle parti». Ma una sede internazionale che persegua l’accordo delle parti non esiste finché l’Ucraina, e insieme a essa l’Occidente, continuino a perseguire la reconquista e finché Putin continui a rivendicare la “russietà” della Crimea e del Donbass. Questa di questo tempo della globalizzazione è, infatti, oltre che una guerra imperialista, anche una guerra identitaria. Ed è proprio su questo versante dell’identità che può essere condotta la sfida della pace, perché è l’unico piano sul quale gli unilaterali e arbitrari interessi delle parti trovano un oggettivo terreno di verifica, dove la verità può sperare di togliere la parola alle armi: una sfida della pace, perciò, non sembra possa essere una cosa diversa dalla sfida sulla verità, e cioè dalla sfida sull’identità.
Entrambe le parti dicono che quei territori sono loro perché, rispettivamente, ucraine o russe sono le popolazioni che li abitano. Allora un terreno di trattativa può essere la proposta di una sospensione delle operazioni belliche e dell’indizione, in un tempo che consenta di far decantare il furore della guerra, di un referendum sotto garanzia dell’Onu, adeguatamente articolato e con sagge e opportune soluzioni alternative locali: dite che vi battete per la libertà delle vostre popolazioni, e allora andiamo a vedere cosa pensano queste popolazioni. Certo il diritto internazionale dei confini statali salterebbe, ma nella Carta delle Nazioni Unite c’è anche il principio di autodeterminazione dei popoli.
Giurista, Università di Catania