C’è qualcosa di perverso e di furbo nella notizia tamtam che sbandiera il fatto che un italiano su tre torna delle vacanze più stressato. La notizia è stata divulgata e commentata all’infinito. Dove starebbe la perversione, dove la furbizia? Partiamo dalla seconda. La notizia di tale dato statistico è stata rilanciata basandosi su uno “studio” pubblicato dal sito www.inabottle.it , di proprietà di un gruppo industriale, un marchio glorioso di bevande e acque.
Non a caso nello “studio” pubblicato, che è in realtà un consultazione via social (!) tra 1.500 italiani e un raccolta di pareri di psicologi e nutrizionisti, si raccomanda al rientro dalle vacanza, per combattere lo stress, tra l’altro, di riprendere una sana alimentazione e, si aggiunge: «Ma non conta solo il cibo bensì anche l’acqua» (in neretto nel testo). Niente di grave per carità, anzi penso che sia tutto verosimile pur se l’oggetto stress non è facilmente misurabile. Inoltre ritengo valevole che aziende importanti offrono contributi alla discussione. Però se i media che hanno rilanciato la “notizia”, dai tg principali alle prime pagine di siti internet e giornali, avessero citato la fonte in modo chiaro e magari spiegato la differenza tra quello “studio” e un “sondaggio” scientificamente condotto e commentato, forse si sarebbe capito meglio e ognuno avrebbe dato una valutazione più acconcia... E soprattutto, ora che ci hanno ripetuto da mille bocche, da mille siti, e pagine, e annunci tv che lo stress, nonostante le vacanze, è aumentato, cosa si pensa di ottenere se non un aumento del senso diffuso di stress? Il medesimo effetto che nelle scorse giornate di picchi di caldo facevano coloro che parlavano continuamente di caldo.
C’è qualcosa di perverso nell’uso così vasto e vago della parola stress, in questo scialo di una parola che come tutte quelle che indicano forme di sofferenza interiore andrebbe usata con parsimonia e rispetto, e invece ormai è diventata buona per indicare qualsiasi tipo di fastidio o insofferenza, dalle più lievi e ingiustificate alle più gravi fatiche. Se si pensa alla storia nobile di questo termine legato alle sofferenze di lavoratori spesso in condizioni terribili e che annovera tra i suoi studiosi anche grandi personalità cattoliche (da padre Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica a Giancarlo Cesana già presidente dell’Ospedale di Milano) forse si potrebbe, da una notizia tormentone buttata in modo banale, ricavare qualcosa di buono. Ad esempio si potrebbe ascoltare questo diffuso lamento delle anime, questo belato costante, a cui nessun sollievo basta, e prendere sul serio la questione dell’anima. Se si usano invece in modo banale le parole della sofferenza dell’anima si finisce – a volte intenzionalmente – per banalizzare la medesima questione dell’anima e della sua sete continua, quella sete a cui nessun marchio di bevande per quanto prestigioso può rispondere.
È vero che c’è un sacco di gente insofferente, è vero che c’è in giro un sacco di insoddisfazione indotta da modelli di vita frustranti. Ma allora lavoriamo sull’anima, per liberarla da ricatti, da catene, da ombre e fantasmi. Se è così evidente il problema come è stato ripetuto in questi giorni perché in troppi mass media oltre a cuochi intrattenitori, imbonitori, siparietti non si ospita di più chi tratta le cose dell’anima? E non intendo, qui, psicologi – non mancano, né sui media né nel Paese, ma se gli effetti son questi... – bensì gente dall’anima lieta, che sopporta senza stressarsi, combatte senza insoddisfazione, scruta a fondo e ama la vita...