Al termine di un lungo e complicato iter politicogiudiziario, la presidente del Brasile Dilma Rousseff – già sospesa dalla carica lo scorso maggio – è stata destituita dalla massima carica del Brasile: il Senato brasiliano ha votato in tal senso nella giornata di ieri con 61 voti contro 20, ben più della maggioranza dei due terzi prescritta dalla Costituzione. Il vice di Rousseff, il costituzionalista Michel Temer, ha assunto la carica di presidente giurando davanti al Congresso, diventando così, a 75 anni, il più anziano presidente della storia del gigante sudamericano.Si tratta di un passaggio di notevole rilevanza politica, che si presta ad almeno due ordini di considerazioni, relative, rispettivamente, alla situazione politica brasiliana e allo scenario latinoamericano. Riguardo alla politica brasiliana, vanno sottolineati due dati. Il primo è che la destituzione della presidente di una delle più grandi democrazie del mondo – eletta nel 2010 e rieletta nel 2014 col voto di 50 milioni di brasiliani e rappresentante di uno dei più importanti partiti di massa del Sudamerica (il Partido de los Trabalhadores PT) – è avvenuta nel rispetto dei tempi e delle procedure previste dalla Costituzione brasiliana. Infatti, se è vero che non pochi ritengono che la causa formale dell’impeachment (aver truccato i dati di bilancio alla vigilia della rielezione) non giustificasse la destituzione della presidente, non può essere negato che tutto è accaduto nel massimo rispetto delle regole costituzionali. E se pure è vero che Dilma non è il primo capo di Stato sudamericano a essere destituito negli ultimi decenni (accadde già al suo predecessore Fernando Collor nel 1992, al venezuelano Carlos Andrés Perez e al guatemalteco Jorge Serrano nel 1993, all’hondureño Manuel Zelaya nel 2009 e al paraguayano Fernando Lugo nel 2012), le circostanze sono diverse per vari aspetti. Nel precedente brasiliano, Collor era esponente di un partito minuscolo, mentre Dilma aveva dietro di sé il principale partito del Paese; negli altri casi la destituzione del presidente avvenne per lo più in maniera poco ortodossa o in mezzo a disordini o con l’intervento decisivo delle forze armate. Niente di tutto questo nel Brasile del 2016. Sicché ci si può compiacere del radicamento della democrazia e dello stato di diritto nel subcontinente, consapevoli che una crisi di questo tipo trent’anni fa sarebbe stata risolta con un colpo di Stato militare.Il secondo dato da sottolineare è che con l’uscita di scena di Dilma si chiude un ciclo che ha segnato in profondità la storia recente del Brasile: un esponente del PT – prima Lula, poi Rousseff – occupava infatti il Palacio do Planalto dal 1° gennaio 2003. Si tratta del periodo di governo ininterrotto dello stesso partito più lungo della storia democratica del Brasile. Un ciclo che, se si conclude ingloriosamente – in mezzo a una serie di scandali per corruzione politica che ricorda la Mani Pulite italiana del 199293 –, non è stato privo di risultati. Infatti le politiche sociali attuate dai governi 'petisti' sull’onda delle risorse derivanti dal boom delle materie prime hanno fatto uscire dalla povertà alcune decine di milioni di brasiliani, allargando la classe media, in un Paese da sempre segnato da profonde diseguaglianze.Del resto, la chiusura di un ciclo non è solo un dato brasiliano, ma, più in generale, latinoamericano. Sta infatti calando il sipario sulla fase storica, apertasi dopo il 2000, segnata dalla svolta a sinistra in quasi tutta l’America Latina (con le eccezioni di Messico e Colombia) e durata tre lustri, con le due varianti più moderata (simboleggiata appunto da Lula) e più radicale (personificata da Chavez). Le recenti elezioni presidenziali in Argentina (novembre-dicembre 2015) e in Perù (aprile-giugno 2016) e le elezioni parlamentari in Venezuela (dicembre 2015), oltre al plebiscito boliviano di febbraio, hanno tutte indicato il declino delle diverse varianti della sinistra latino-americana, che del resto affiorano anche nei Paesi in cui non si vota, come dimostra ad esempio il calo della popolarità dei governi del Frente Amplio in Uruguay e della Concertación in Cile. Tuttavia, se un ciclo si sta chiudendo, non è chiaro quale sia il segno della fase che si aprirà nei prossimi anni, atteso che appare improbabile un ritorno in auge delle soluzioni neoliberali che avevano dominato negli anni Novanta. Il Brasile – e più in generale l’America latina – attraversano dunque una fase di consolidamento delle istituzioni democratiche (un capitolo della quale, fra l’altro, è il processo di pacificazione in corso in Colombia, che culminerà nel plebiscito del prossimo 2 ottobre), nella quale l’alternanza fra destra e sinistra potrebbe diventare qualcosa di meno drammatico che in passato, con l’eccezione di quanto sta accadendo in Venezuela, ove invece lo scontro politico ha toni assai radicali. Ma non è chiaro quale orientamento risulterà prevalente nei prossimi anni.
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