Il caso delle votazioni parlamentari sulla mozione di Liliana Segre per dare luogo istituzionale alla battaglia contro le parole d’odio e alle discriminazioni razziali è come un rasoio. Disseziona in modo feroce e cristallino il paradigma della condizione umana. Evento di estrema chiarezza per chi vuole leggerlo senza fare ricorso ad argomentazioni pretestuose, a retoriche, a luoghi comuni che, anche quando spesi a favore, non fanno altro che allontanare dalla questione fondamentale. La miseria delle quotidianità è tale da rimuovere costantemente ogni ostacolo al fluire delle cose ottuso e incurante. Complice la nostra sempre antica e sempre sorprendente connivenza, le attività prevalgono su tutto, compresi noi stessi. Prevalgono sulla solidarietà, anche quando non costa nulla, aprono la strada a una dimensione omissiva perenne che sembra tenerci fuori dai drammi, mentre è solo l’anestesia premortem di individui che tutto ignorano finché non è troppo tardi. E che in quei drammi ci porta dentro nostro malgrado come complici.
Nel caso Segre non sono di alcun aiuto le motivazioni di strategia politica, rivalse ridicole, giustificazioni di ogni sorta da parte di chi si è astenuto. Dalla parte chi ha votato a favore diviene spesso strumentale anche l’apparente solidarietà, da sbandierare come trofeo improprio di una altrettanta impropria autopromozione. Qui, non di rado, le ragioni sono superficiali e pretestuose come quelle di chi si è astenuto. Ogni aspetto, comprese molte prese di posizione in favore della mozione, per quanto io le condivida ovviamente nel risultato, non sono altro che la conferma di quanto, nonostante i proclami, quello della Shoah è un buco nero della storia da cui siamo profondamente e colpevolmente scissi. Di fatto lo sterminio è una dimensione inconcepibile in sé, e sembriamo incapaci di contenerne anche solo una vaga immagine. Ciò che conteniamo sono una serie di proiezioni costruite su immagini e nozioni distanti tanto da noi quanto dalla realtà vera dell’orrore diretto e quotidiano di quegli eventi. Lo spartiacque provocato da Liliana Segre dimostra che non è sufficiente ricordare per non ripetere gli errori. Anzi, in definitiva non serve in alcun modo se la memoria non è sorretta da un profondo moto di empatia umana. Ricordare, sulla base di informazioni acquisite, di feticci commemorativi, per la maggior parte delle persone non significa nulla se non un esercizio mnemonico da esibire, eventualmente, dove se ne possa trarre un qualche profitto di immagine.
Da quando sono stato in quell’universo sordo che è Auschwitz una cosa credo di averla capita. Ciò che può fare la differenza è un dolore interiore che succede o non succede. La memoria è viva quando scatta il dolore e quando in questo dolore si sprofonda senza pudore. Non è data una via di mezzo.
Il rasoio della verità della storia, il rasoio di un fatto che sarebbe impronunciabile in se stesso, che è sulla coscienza di tutta l’Europa e da cui non vi è riscatto, taglia l’umanità in due. Quelli che non si sono opposti al nazismo al tempo dei fatti esponevano anche loro motivazioni di ogni genere. Eppure tutte queste motivazioni sono state e sono tuttora il paravento di una ignavia ipocrita che è ma-lattia perenne dell’uomo. Non credo vi sia un antidoto. Alla tragedia si somma tragedia. La unica speranza è che un giorno, a ognuno, all’improvviso, la coscienza del dolore giunga come una lama nel cuore, tremenda, intollerabile e profondamente umana. Allora, e forse solo allora, come per un riflesso antalgico, le gambe prenderanno possesso dei cervelli e li costringeranno ad alzare i corpi dalle sedie. Nel segno di una memoria che se è di altri è anche mia, di una tragedia che nessuno esclude, anche dalle confortevoli sedute di un Parlamento, infinitamente distanti dal blocco 11. Nel segno di un abbraccio che incurante di misere convenienze politiche e calcoli di partito corre con affetto infinito verso chi è lì come preziosa memoria viva di una moltitudine che non può neanche più piangere.
Un abbraccio che rivolgo da qui a Liliana Segre, dalla Oswiecim (Auschwitz, in tedesco) che ormai è diventata parte della mia vita.