Giorgio Donadoni ha 55 anni e nessuna certezza per il futuro. Ha iniziato a lavorare a 15 anni e per 33 è stato dipendente di un’azienda tessile. Poi la crisi del settore e nel 2005 il passaggio a un’impresa edile. «Dal 2009 però sono stato licenziato per riduzione del personale e non ho più trovato un posto fisso». «Non c’è lavoro», è la risposta che si sente ripetere continuamente. E pensare che è fortunato: abita in Val Brembana, mica nel Mezzogiorno, e per qualche tempo è riuscito pure a trovare un contratto a termine. Poi da metà 2010 più nulla.
«Fino a marzo ho il sussidio di disoccupazione», racconta «e contavo di andare avanti coi risparmi messi da parte e pagando 5 mesi di contributi volontari.
Ad agosto, finalmente, dopo 40 anni di lavoro sarei andato in pensione». E invece con la riforma Fornero dovrà aspettarne almeno 30 di mesi. Due anni e mezzo senza lavoro, senza salario, senza un sussidio di disoccupazione e senza contributi neppure figurativi. «Trenta mesi sono troppi, non ce la faccio...».
Quella di Giorgio è solo una delle tante vicende – e neppure tra quelle più drammatiche – arrivate in redazione in queste ultime settimane. Storie di chi è rimasto nella 'terra di mezzo' tra il lavoro – lasciato o perduto – e la pensione, che pareva a portata di mano dopo 35-40 anni d’attività e si è poi allontanata quasi fosse un miraggio all’orizzonte. Il sindacato stima che siano «decine di migliaia» gli ex-lavoratori in questa situazione. Ci sono i cosiddetti «esodati», cioè coloro i quali avevano concordato l’uscita da aziende in difficoltà, in attesa appunto della quiescienza. Assieme a quanti si sono ritrovati disoccupati, senza volerlo, senza neppure firmare accordi.
Per una minima parte di loro sono state previste delle deroghe, ma nel decreto Milleproroghe, che viene votato in queste ore alla Camera, non sono state reperite ulteriori risorse per allargare la platea dei 'salvati'. Lasciando così i più fra i "sommersi".
La riforma della previdenza, per l’invecchiamento della popolazione e l’impennarsi dei costi, era necessaria.
L’innalzamento dell’età pensionabile così repentino e netto, però, ha squassato i progetti di vita di moltissimi. Soprattutto di chi, appunto, aveva già dovuto abbandonare la certezza di uno stipendio, la dignità di un ruolo e di un’identità nel mercato, e stava appeso al filo di un sussidio, in attesa d’essere traghettato nella nuova dimensione della pensione. Gli economisti classificano freddamente questi drammi tra gli «effetti di transizione» da un sistema all’altro, certo più solido, forse anche più giusto.
Solo che questi «effetti» sono costi sociali vivi. Sono nomi e volti e vite. Dietro di loro stanno famiglie intere. A volte figli ancora a carico, che magari con sacrificio sono stati mandati all’università o che collezionano solo un’occupazione precaria dopo l’altra. Di questi «effetti di transizione», allora, il Governo, il Parlamento e il Paese non possono non farsi carico. Trovando in altre poste le risorse necessarie a copertura delle loro pensioni (al limite con qualche penalizzazione). O quantomeno organizzando per queste persone percorsi di re-inserimento nel mercato del lavoro. In alcune province sono state sperimentate con successo iniziative di ricollocamento dalle liste di mobilità, grazie alla collaborazione tra centri pubblici per l’impiego e Agenzie per il lavoro.
Si può pensare a un piano mirato. Non si può pensare di lasciare decine di migliaia di persone abbandonate al loro destino, nel deserto della "terra di mezzo".