Se un pm afferma che una vita vale meno
martedì 9 maggio 2017

Sulla richiesta della Procura di Milano per l’archiviazione del procedimento a carico di Marco Cappato, indagato per istigazione e aiuto al suicidio, punito dall’articolo 580 del Codice penale, dopo aver accompagnato Fabiano Antoniani (dj Fabo) in Svizzera per praticare il suicidio assistito, dovrà ora pronunciarsi il Gip. L’articolo 580 parla chiaro e stabilisce che «chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da 5 a 12 anni».

Questo articolo, così come il 579 che punisce l’omicidio del consenziente (con la pena della reclusione da 6 a 15 anni), è un chiaro segnale di come nel nostro ordinamento la volontà di morte del titolare del bene vita non escluda la responsabilità di chi la morte gli procura (articolo 579) ovvero di chi lo aiuta a togliersi la vita (580). Il legislatore, tuttavia, dà rilievo alla volontà manifestata dalla vittima e, pur non escludendo la pena per chi uccide o aiuta colui che vuole morire, la diminuisce significativamente rispetto a quella prevista per l’omicidio volontario (reclusione non inferiore a 21 anni).

Prevedere, come fanno gli articoli 579 e 580 del Codice penale, che è penalmente responsabile chi asseconda la volontà di morire di un’altra persona significa affermare che il bene protetto – la vita – non è solo un diritto inviolabile da parte di soggetti terzi ma è anche un diritto indisponibile. Indisponibilità vuol dire che se il titolare del bene vita distrugge il bene stesso non esercita un diritto, cioè non opera secondo giustizia, ancorché non venga punito. Nonostante la norma penale vigente, i pm richiedono l’archiviazione poiché convinti che il principio di dignità impone l’attribuzione a tutti coloro che vivono in condizioni gravissime o irreversibili, percepite dal malato come lesive del senso della propria dignità, «di un vero e proprio diritto al suicidio», esigibile non solo in via indiretta con la rinunzia alla terapia ma anche in via diretta, con l’assunzione di una «terapia finalizzata allo scopo suicidario». Infatti, si legge nella richiesta, in questi casi l’aiuto al suicidio «diviene una condotta radicalmente inoffensiva del bene giuridico tutelato dall’articolo 580 Codice penale».

L’impostazione alla base della richiesta dei due magistrati milanesi – secondo cui non c’è violazione del diritto alla vita se il malato ritiene indegna la propria – è tutt’altro che priva di conseguenze giuridiche preoccupanti. Una simile affermazione modifica, infatti, radicalmente, in nome di un criterio soggettivo di dignità, la ratio di tutela del bene vita, protetto dalle norme che puniscono le varie forme di omicidio presenti nel nostro Codice penale (agli articoli 575, 584, 589, 589-bis). L’ordinamento, in altre parole, non deve più proteggere la vita in sé e per sé ma solo il bene vita se e fintantoché accompagnato dalla volontà del suo titolare di conservarlo. Dunque, il vero bene protetto delle stesse norme che puniscono l’omicidio non sarebbe più la vita ma, finché c’è, la volontà di vivere. La tutela, in altre parole, cessa se e quando tale volontà viene meno.

Qualora si obiettasse, poi, che nella richiesta di archiviazione non si afferma che esiste un diritto generalizzato di disporre della vita, le aporie giuridiche cui si andrebbe comunque incontro non sarebbero meno gravi. Se si riconosce, infatti, che il diritto al suicidio esiste solo per coloro che si trovano in condizioni di salute gravi o intollerabili si afferma che, per l’ordinamento, può disporre del bene vita il malato e non anche il sano. Così però, fuor di metafora, si sta dicendo al malato: 'la tua vita vale meno di quella del sano, perché tu, e solo tu, che sei malato, puoi disporne'. Una simile soluzione, che a ben vedere non è estranea all’impostazione di una certa giurisprudenza ripetitiva di formule che fanno dell’autodeterminazione il moloch cui sacrificare i diritti dell’uomo (e l’uomo stesso), incorre in una insanabile violazione del principio di uguaglianza.

Affermare che il diritto alla vita può essere bilanciato con «altri interessi parimenti fondamentali» e che le «pratiche di suicidio assistito non costituiscono una violazione del diritto alla vita quando siano connesse a situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile e indegna dal malato» equivale a formulare un giudizio di valore tale per cui, per l’ordinamento, la vita del malato 'vale' meno della vita del sano, visto che il primo ne può disporre, e il secondo no.

*Associato di Diritto penale, Università Europea di Roma

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