E ora che l’Iran ha risposto? Per giorni l’élite di potere della Repubblica islamica è apparsa incerta se rispondere ai terribili colpi inferti al “fronte della resistenza” per paura di provocare la reazione di quell’irrefrenabile rullo compressore che sono oggi le forze armate israeliane.
L’eliminazione pressoché totale dei vertici di Hezbollah, la sfrontata superiorità della potenza militare israeliana, lo stesso recente discorso del premier Netanyahu, con la promessa agli iraniani che presto “sarebbero stati liberi”, hanno infine convinto un dubbioso Khamenei che l’inazione avrebbe tolto ogni credibilità ai suoi proclami e scoraggiato oltre misura i propri alleati. L’Iran ha così lanciato un attacco molto più determinato rispetto a quello dello scorso aprile, anche se quasi privo di conseguenze. È stata una scelta molto rischiosa: perché i pasdaran si sono rivelati molto più fragili di quanto immaginato e palesemente non possono sostenere un confronto diretto con le forze militari israeliane. Una conseguenza delle divisioni interne all’Iran, ma soprattutto dell’ingordigia di potere, politico ed economico, dei vertici delle guardie rivoluzionarie, ormai intente soprattutto a sfruttare le risorse del corrotto sistema post-rivoluzionario, più che a lottare contro l’odiato “nemico sionista”.
La domanda è ora come risponderà Israele. È evidente come Netanyahu e il suo governo di ultra-destra stiano usando la guerra non solo per rimanere al potere, come era sembrato nei primi mesi. L’obiettivo ora è molto più ambizioso: il premier israeliano pare aver imboccato deliberatamente la strada dell’allargamento del conflitto e della provocazione dei suoi nemici per indurre a una trasformazione dell’ordine regionale. Per molti comprensibili motivi storici, politici e culturali, noi in Occidente siamo sempre restii a condannare gli eccessi del governo israeliano: ma la verità è che, se guardiamo alle dichiarazioni dell’Onu e del diritto internazionale, le forze armate e di sicurezza israeliane hanno commesso crimini di guerra in questo ultimo anno. Lo sono i bombardamenti indiscriminati su Gaza e su Beirut con la strage di decine di migliaia di donne e bambini innocenti, lo sono anche gli assassini mirati. Ma questi eccessi, voluti da Netanyahu, stanno a segnalare che per Israele non esistono più linee rosse invalicabili; non esiste più la logica della deterrenza, né limiti all’uso spregiudicato della loro iper-forza. Ma il valore di queste “linee rosse” è proprio che esistano e siano rispettate. E oltrepassarle è sempre estremamente pericoloso.
Da anni, anzi quasi due decenni, il premier israeliano vagheggia il bombardamento dei siti nucleari iraniani, dei suoi terminal petroliferi e – neppure troppo velatamente – auspica un cambio di regime indotto a Teheran. Queste azioni sono oggi purtroppo apertamente dibattute quali opzioni possibili e praticabili, ma farebbero precipitare la regione nel caos totale, dato che simili attacchi spingerebbero l’Iran a cercare di bloccare il traffico di energia in tutto il Golfo Persico.
Forte dei suoi straordinari successi militari – per quanto spaventosi dal punto di vista umanitario – il governo di Israele rischia di correre lo stesso errore compiuto dall’Amministrazione di George W. Bush dopo gli attentati di Washington e New York dell’11 settembre 2001. Allora, gli Stati Uniti ritennero di poter “inoculare” dall’esterno e a forza la democrazia in Medio Oriente con la sciagurata invasione dell’Iraq di Saddam Husseyn, forti della loro superiorità militare. Una mossa velleitaria che ha gettato tutto il Medio Oriente in un caos da cui non si è ancora ripreso.
Oggi, l’errore sarebbe ritenere che schiacciare militarmente i nemici, lasciando dietro di sé una scia di decine di migliaia di civili uccisi, eliminare i capi dei movimenti ostili, senza mettere mano alle ragioni storiche, sociali ed economiche che hanno dato linfa a quei movimenti, possa pagare un dividendo positivo non solo nel breve ma anche nel lungo tempo. Non è così: le linee rosse invalicabili esistono proprio per non essere valicate; perché la forza da sola non basta a risolvere problemi politici e identitari. E l’illusione di costruire un nuovo ordine regionale semplicemente schiacciando i nemici, senza una “pars construens” credibile, produrrebbe solo nuovi incubi e frutti avvelenati per tutti.