venerdì 8 dicembre 2023
Siamo entrati nell’era dell’algofobia: è nata un’ideologia del benessere permanente ottenibile per via medica. La sofferenza? Non è compatibile con la performance. E si ricorre a droga ed eutanasia
Un momento di esultanza e di cameratismo tra atleti paralimpici ai giochi di Tokyo del 2021

Un momento di esultanza e di cameratismo tra atleti paralimpici ai giochi di Tokyo del 2021 - Ansa

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I casi recenti del suicidio in Svizzera di Sibilla Barbieri e della piccola Indi Gregory hanno rimesso al centro del dibattito la questione del fine vita o della morte medicalmente assistita. Più che affrontare direttamente il tema se sia giusto o meno legittimare per via giuridica la volontà di morire nella forma dell’eutanasia e/o del suicidio assistito, in quali casi e a quali condizioni, quello che mi interessa cercare di approfondire in questo articolo è l’atteggiamento di fondo che la nostra società secolarizzata e ormai definitivamente post-moderna ha nei confronti dell’esperienza del dolore e della sofferenza. Per farlo mi avvarrò degli spunti che mi sono stati suggeriti da un magnifico libro scritto dal filosofo tedesco-coreano Byung-Chul Han e intitolato La società senza dolore.

Secondo un sondaggio svolto da Swg nel 2019 per conto dell’Associazione Luca Coscioni, la percentuale di italiani favorevole all’eutanasia sarebbe del 93%. Anche se non vogliamo prendere per oro colato la percentuale indicata, viste le criticità rilevate da molti insigni metodologi nei confronti dei sondaggi d’opinione, come si spiega un consenso comunque ampio? Per Byung-Chul Han la ragione di fondo è la diffusione dell’algofobia. Secondo lui oggi imperversa ovunque una paura generalizzata del dolore che ha come conseguenza il desiderio di vivere in un’anestesia permanente, come è dimostrato dal continuo aumento dell’uso di sostanze stupefacenti. Si vuole evitare qualsiasi circostanza dolorosa, al punto che persino le pene d’amore sono diventate sospette.

Nell’odierna algofobia è insito un cambio di paradigma culturale. Tale paradigma si fonda anzitutto sull’idea della positività che tenta di sbarazzarsi di tutto ciò che è negativo. Il dolore è la negatività per antonomasia, quindi è naturale che non trovi posto. Anche la psicologia segue questo cambio di paradigma e passa dalla psicologia negativa intesa come “psicologia della sofferenza” alla ”psicologia positiva” che si occupa del benessere, della felicità e dell’ottimismo. La felicità quale missione della psicologia positiva è strettamente legata alla promessa di un’oasi permanente di benessere ottenibile per via medica. La crisi statunitense degli oppioidi possiede, in questo senso, un carattere paradigmatico.

Non è in gioco solo l’avidità delle case farmaceutiche o della criminalità organizzata. In essa è insito, più che altro, un assunto fatale circa l’esistenza umana. Solo un’ideologia del benessere permanente può far sì che farmaci originariamente utilizzati nella medicina palliativa vengano impiegati in grande stile anche su persone sane. Non a caso, già alcuni decenni orsono lo studioso del dolore David B. Morris osservava: «Gli americani di oggi appartengono probabilmente alla prima generazione sulla Terra che considera un’esistenza priva di dolore come una sorta di diritto costituzionale. Le sofferenze sono uno scandalo».

La società palliativa, però, rimane anche società della prestazione. Il dolore viene interpretato come un segno di debolezza, qualcosa da nascondere o da eliminare in nome dell’ottimizzazione. Esso non è compatibile con la performance. La passività della sofferenza non ha alcun posto nella società attiva dominata dal poter fare. Oggi il dolore viene privato di qualsiasi possibilità di espressione: viene condannato a tacere. La società palliativa non permette di animare, verbalizzare il dolore facendone una passione. Nell’ambito del nuovo paradigma cambia anche la concezione della corporeità. Secondo Jünger, per la sensibilità contemporanea il corpo non è più uno strumento per uno scopo superiore ma diventa un fine in sé. Si perde, cioè, quell’orizzonte di significato che consentirebbe di cogliere il senso del dolore. Il corpo edonistico che si piace e gode di sé senza alcun aggancio con un fine più alto sviluppa al contrario del corpo disciplinato un atteggiamento di rifiuto nei confronti del dolore, che gli pare del tutto insensato e inutile.

Cambia anche la concezione della felicità, che diventa la somma dei sentimenti positivi capaci di garantire una prestazione migliore. Ma la vera felicità è possibile solo se infranta. È proprio il dolore a salvaguardare la felicità dalla reificazione. Secondo Nietzsche, l’infelicità e la felicità sono «due sorelle, e gemelle, che diventano grandi insieme o […] restano piccole insieme». Se il dolore viene soffocato, ecco che la felicità si appiattisce riducendosi a un apatico torpore. La profonda felicità resta inaccessibile a chi non è aperto al dolore. Ma la caratteristica cruciale dell’odierna esperienza del dolore consiste nel fatto che esso venga percepito come privo di senso. Ora il dolore è un male insensato da affrontare armati di analgesici. In forma di mero supplizio corporeo, esso abbandona del tutto l’ordine simbolico. L’insensatezza del dolore suggerisce che la nostra vita, ridotta a processo biologico, è a propria volta svuotata di senso. La sensatezza del dolore presuppone una narrazione che inserisce la vita in un orizzonte di senso.

La favola di Andersen La principessa sul pisello si lascia leggere come una parabola sull’ipersensibilità del soggetto tardo moderno. Un pisello sotto il materasso provoca tali dolori alla futura principessa da farle passare una notte in bianco. Probabile che le persone al giorno d’oggi soffrano della “sindrome della principessa sul pisello”. Il paradosso di questa sindrome del dolore consiste nel fatto che si soffre sempre di più a causa di cose sempre più piccole. Il dolore non è una grandezza constatabile in chiave oggettiva, bensì una percezione soggettiva. Le crescenti aspettative nei confronti della medicina contemporanea, associate all’insensatezza del dolore, fanno sembrare insopportabili persino i dolori più insignificanti. Inoltre, non disponiamo più di nessi di senso, narrazioni, istanze superiori o scopi in grado di abbracciare il dolore e renderlo sopportabile. E se il pisello che infligge sofferenza scompare, ecco che le persone iniziano a soffrire a causa dei materassi troppo soffici. È proprio la persistente insensatezza della vita a far male.

È sulla base di questo paradosso che possiamo facilmente prevedere come l’approvazione di una legge sull’eutanasia e sul suicidio assistito, per quanto rigorosa e specificamente riservata a casi particolarmente gravi, porterà inevitabilmente ad un aumento molto forte delle richieste anche da parte di persone che non rientrerebbero “oggettivamente” nei casi previsti, ma sentono “soggettivamente” insopportabile la propria condizione di dolore. Il vero problema, quindi, non è come regolare normativamente il fine vita ma come cominciare a modificare questa cultura dominante che rende il dolore muto e insensato nel momento stesso in cui il forte invecchiamento della popolazione renderà l’esperienza del dolore sempre più diffusa. Penso all’aumento dei dolori cronici che, secondo una ricerca del 2022 interessano già oltre 100 milioni di persone in Europa, 13 milioni solo in Italia.

Su come cominciare a realizzare questo cambiamento Byung-Chul Han ci offre una traccia, più che una risposta. Lo spunto viene da una citazione di Viktor von Weizsäcker che descrive come segue la scena primordiale della guarigione: «Allorché una bimba vede soffrire il fratellino essa trova, senza quasi saperlo, una via per consolarlo: con affetto cerca la sua mano e, amorevolmente, lo tocca dove gli fa male. Così la piccola samaritana diventa il suo primo medico. Una specie di prescienza dell’efficacia originaria dell’azione domina in lei a sua insaputa; essa guida il suo impulso verso la mano e induce la propria al contatto appropriato. Infatti, ciò di cui il fratello farà esperienza è che la mano lo tocca facendogli bene. Tra lui e il suo dolore subentra la sensazione del venir toccato dalla mano della sorella, in un modo che la sofferenza si ritrae dinanzi a questa nuova sensazione».

Oggi ci allontaniamo sempre di più da questa scena primordiale di guarigione. L’esperienza della cura che guarisce, la sensazione di essere toccati e interpellati, è sempre più rara. Viviamo in una società in cui aumentano solitudine e isolamento, peraltro accentuati dal narcisismo e dall’egoismo. Anche la crescente concorrenza, il calo della solidarietà e dell’empatia isolano le persone. Per il dolore, la solitudine e la mancata esperienza della vicinanza fungono da amplificatori. Forse i dolori cronici, come le ferite da taglio autoinflitte così diffuse tra i nostri giovani specie dopo il periodo del Covid, sono il corpo che grida in cerca di attenzioni e vicinanza, in cerca d’amore – un indizio eloquente del fatto che oggi i contatti si verificano di rado. Ci manca in tutta evidenza la mano guaritrice dell’Altro. Nessun analgesico può sostituire quella scena primordiale della guarigione. Dobbiamo ripartire dalle relazioni, dai contatti, dalla vicinanza non solo nei confronti dei malati ma anche dei loro familiari e/o caregiver. Dopo aver fondato le nostre società sull’ individuo e le sue libertà dobbiamo rifondarle sulle relazioni e sulla solidarietà, su quella che Papa Francesco così spesso chiama «l’amicizia sociale».

L'autore, già ordinario di Sociologia Generale, è professore Alma Mater dell’Università di Bologna

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