«La propaganda è l’arte di convincere gli altri di ciò in cui non si crede», sosteneva, non senza qualche argomento, Abba Eban, che fu vicepremier e ministro in diversi governi israeliani della seconda metà del Novecento, compreso quello guidato dalla celebre Golda Meir, donna e primo ministro di polso. Non sappiamo se, nel pantheon dei modelli di premier al femminile che ispirano l’azione della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, abbia trovato posto anche la risoluta Meir. Ciò che invece siamo costretti a registrare, quasi quotidianamente, è che un eccessivo ricorso all’arte della propaganda sta iniziando a contrassegnare il cammino dell’esecutivo, complicando e non risolvendo le questioni. Il principale terreno politico su cui viene più esercitata resta quello delle politiche migratorie, a suon di slogan, buoni per riempire un titolo di tg e senz’altro comprimibili nei pochi caratteri di un tweet, ma poi – alla prova dei fatti – distorcenti e controproducenti.
Il professor Ambrosini ha autorevolmente sottolineato, su queste colonne, il paradosso di voler affrontare un fenomeno annoso e permanente come i flussi migratori deliberando uno “stato d’emergenza” di sei mesi, come se i movimenti di persone spinte da guerre, calamità, persecuzioni e fame possa verosimilmente attenuarsi o risolversi entro quel lasso temporale. E chi non ricorda il fantomatico “blocco navale” per anni evocato come panacea anti-barconi nel Mediterraneo, poi tramutatosi in una meno inverosimile, e più consona al diritto internazionale, “missione europea”. Del resto, anche in Europa c'è chi, come il presidente del Ppe Manfred Weber, continua a ritenere i “muri” una soluzione al muoversi di masse di persone spinte dall’angoscia e dalla necessità.
Da ultimo, l’approccio propagandistico ha investito e politicizzato una questione umanitaria come quella della protezione speciale. Gli argomenti contro di essa potrebbero suonare convincenti a orecchie inesperte. Ma già a una prima verifica dei fatti finiscono per rilevarsi imprecisi, figli di un approccio ideologico, più che pragmatico.
«Vogliamo cancellarla perché non esiste in nessun altro Stato europeo», ha detto nei giorni scorsi, da Addis Abeba, la premier Meloni. Ma non è così. Basta una verifica via web su documenti e fonti europee per accertare come almeno 18 Stati, sui 27 che danno forma all’Ue, abbiano nei propri ordinamenti forme di protezione umanitaria analoghe. Di più: secondo un dossier della Rete europea sulle Migrazioni, sono almeno 60 le forme giuridiche di protezione nazionale specifiche (per legami familiari, condizioni sanitarie, abusi domestici o familiari, calamità naturali o disastri climatici…), armonizzate con quelle per motivi umanitari in senso lato. Peraltro, dati Eurostat alla mano, nel 2022 le autorità italiane hanno concesso per protezione speciale circa 10.800 permessi, non certo un numero sterminato, e senz’altro meno, per esempio, di quelli accordati in Germania (30mila) o in Spagna (20mila).
Eppure, ancora ieri mattina, il vicepremier Matteo Salvini ha continuato a sostenere che «la protezione speciale dei migranti, a livello europeo, non è prevista» e che «l'hanno portata in Italia nel 2020 quelli del governo giallo-rosso». Ma chi ha memoria ricorderà che fu il decreto (in)sicurezza del 2018, da lui sostenuto come ministro dell’Interno, a indebolire la protezione umanitaria, marginalizzando e rendendo invisibili persone in fuga da tragedie collettive e personali. E il secondo governo Conte, con l’allora titolare del Viminale Luciana Lamorgese, e il Parlamento operarono di cesello solo per ripristinare almeno in parte, con fattispecie “speciali” appunto, ciò che le norme salviniane avevano demolito.
Sono molte le voci politiche, della società civile e della Chiesa che in questi giorni stanno chiedendo al governo e alla maggioranza di riconsiderare la propria posizione, segnalando come – in caso di cancellazione – si rischierebbe di creare migliaia di nuovi “irregolari” sul territorio, con conseguenze non positive per i loro diritti, per il lavoro nero e per la sicurezza in generale. Ascoltarle potrebbe evitare quell’esito infelice e invero paradossale, per un esecutivo che continua ad affermare come obiettivo l’esatto contrario. Davvero desidera questo, la presidente del Consiglio? Davvero crede fino in fondo, per parafrasare Eban, che basti convincere l’opinione pubblica? C’è una differenza, che già gli antichi greci conoscevano, fra doxa e aletheia, fra le convinzioni ingenerate nelle persone e gli esatti termini di una situazione.
E un governo che aspira a essere di legislatura deve sapere che, alla fine, verrà giudicato sui fatti. E, a onor del vero, i paradigmi più elaborati adottati dall’esecutivo su altri aspetti della questione migratoria (le quote triennali per i flussi legali, concordati con imprese e parti sociali e che dobbiamo ancora conoscere; il “Piano Mattei” di cooperazione coi Paesi africani, che conosceremo solo in autunno) indicano che un altro approccio è possibile. A patto però di impostare una correzione di rotta, che accantoni gli slogan e tenga insieme rispetto per le persone e interesse del Paese. La ricerca di un punto di “equilibrio” nella riformulazione della protezione, ipotizzato ieri dal ministro dell’Interno Piantedosi, parrebbe indicarlo. Attendiamo di conoscere quale sarà.