Fra i vari e diversi effetti della denatalità, posti in evidenza da autorevoli demografi, ve ne è uno che assai di rado vien messo all’ordine del giorno: anche perché rischierebbe di mettere ulteriormente in crisi il vasto mondo dei 'denatalisti'. La questione, cioè, della permanenza nel tempo della componente vasta, un tempo ampiamente maggioritaria, oggi comunque significativa dell’«Italia cattolica ».
E questo in una società, destinata a cambiare di nuovo profilo per effetto della crisi demografica, essendo ben noto che i credenti – cattolici e no – hanno, in generale, un’alta e consapevole visione del mondo e un sentito e profondo amore alla vita. Dire Vangelo, infatti è sempre dire amore alla vita: nella gioia e nel dolore, pure quando comporta rinunzie e sacrifici (come quelli legati, appunto, al mettere al mondo figli). A partire da questa premessa non vi è dubbio – come anche indagini statistiche pongono in evidenza – che, in generale, sono le famiglie cristiane o comunque credenti quelle più feconde.
Sarebbe erroneo limitarsi semplicemente a deplorare questo evidente legame tra denatalità e secolarizzazione e, ancor più, dimenticare quanto ancora importante sia l’apporto alla generazione della vita dei non credenti.
Resta un fatto, tuttavia, che è possibile operare una comparazione fra appartenenza religiosa e indici di fecondità per documentare l’esistenza di questo legame: che, del resto, non ha nulla di misterioso, ma è la semplice constatazione che un profondo e intenso amore alla vita, la volontà di far crescere e di educare figli, è assai più presente – piaccia o no – nei credenti piuttosto che in coloro che hanno scelto la strada dell’ateismo o, ancor più, quella dell’indifferenza religiosa.
Tra le 'ricette' da proporre per arrestare il declino della natalità occorrerà dunque, un 'risveglio' della coscienza religiosa? Credo, realisticamente, che la strada da percorrere alla portata di tutti, credenti e no, è la presa di coscienza del valore oggettivo, e della forma irripetibile, che ha l’apertura alla vita: per la coppia prima ancora che per i figli.
Amare la vita e, in quanto possibile, donarla è uno dei gesti più belli e più ricchi che una coppia possa compiere: accettando, si intende, anche i sacrifici che ciò comporta in notti perdute, riduzione di fatto delle disponibilità economiche, limitazioni di movimento, dato che più figli significano quasi sempre dormire di meno, vestirsi più semplicemente, ridurre i viaggi... Alla fine tutto dipende dalla scala di priorità.
Vige sempre l’aurea regole delle responsabilità, il criterio da adottare nelle piccole (e anche nelle grandi) decisioni. Ma oggi, quasi sempre, la 'responsabilità' sembra essere declinata assai più nella direzione dei pochi figli (anche, si pensa, per poter dedicare loro più cura, e più 'cose'): cosicché chi ha il coraggio di avere molti figli è spesso tacciato da irresponsabile.
Eppure i teorici del figlio unico sono di fatto quelli che 'spengono' il mondo (senza ovviamente giudicare, con ciò, quanti per gravi e oggettive ragioni sono costretti a tale scelta) e chi ne generano più d’uno, invece lo 'illuminano' e ne rendono possibile la permanenza nel tempo. Torna, insomma, anche qui il dilemma shakespeariano: «essere o non essere»? L’Italia non si salverà dal declino demografico se non accoglierà la strada dell’«essere».