Migrant Aid Station (MOAS)
Caro direttore,
fra il rientro da Bologna e l’arrivo in Bangladesh, finalmente ho avuto il tempo per rimettere in ordine i pensieri e le emozioni dopo l’evento organizzato da Sant’Egidio “Ponti di Pace 2018”. Ci sono stati parecchi incontri interessanti, e quello a cui Moas ha partecipato è stato “Migrazioni e futuro: i corridoi umanitari” moderato dal vostro inviato Paolo Lambruschi. Prima di iniziare, avevo espresso il mio rammarico per non aver mai incontrato nessuna delle persone salvate nel Mediterraneo dalle navi Moas fra l’agosto 2014 e quello del 2017.
In quattro anni, non ho mai avuto la gioia di poter abbracciare una persona salvata dall’Ong fondata dalla mia famiglia e cresciuta col sostegno di una comunità mondiale di donatori e sostenitori. Quando Moas ha iniziato una nuova missione in Sud-Est asiatico per portare assistenza medico-sanitaria ai Rohingya perseguitati in Myanmar che trovavano riparo in Bangladesh, la natura del nostro lavoro è cambiata. Ci siamo abituati a lavorare sulla terraferma con ritmi diversi e in un contesto operativo fragilissimo, ma meno concitato di quello delle attività Sar.
L’apertura delle Moas Aid Station, concepite come centri per l’assistenza medica primaria, ha permesso di assistere oltre 80mila bambini, donne e uomini che spesso non avevano mai visto un dottore. I team medici Moas hanno seguito la convalescenza e la guarigione di Rohingya e bengalesi, aiutando una comunità già provata da mille difficoltà nell’accoglienza di fratelli e sorelle in fuga da persecuzioni inimmaginabili. Durante le permanenze in Bangladesh, ho incontrato donne coraggiose che mi hanno accolta nei loro rifugi, mi hanno fatto conoscere i familiari superstiti e hanno condiviso con me i loro sogni, paure e speranze. Alcune di loro, come Jharu o Jhuma, sono andata a trovarle più di una volta, creando un legame di continuità che aiuta a dare maggiore concretezza a ciò che viene fatto ogni giorno sul campo.
Anche a bordo delle navi Moas, ho conosciuto persone indimenticabili, ma una volta sbarcate se ne perdevano le tracce a meno qualcuna di loro non ci ricontattasse. Così è stato fino allo scorso 15 ottobre a Bologna quando, al momento delle domande dal pubblico, si è alzato Alpha e con poche semplici parole ha realizzato un sogno che avevo da tempo: «Pensavamo di morire, stavamo pregando... Poi è arrivata la nave Moas e ci ha salvati!». In un attimo tutto è diventato ancora più chiaro: non si tratta di utopia, né di buonismo o di altre parole vuote usate per criminalizzare la solidarietà.
Si tratta di una necessità imprescindibile: salvare la vita di chi è in pericolo è un atto necessario. Alpha avrebbe potuto perdere la vita su una imbarcazione alla deriva insieme a decine di altre persone. I suoi sogni sarebbero così svaniti, di lui non avremmo saputo nulla. La sua storia, invece, spiega perfettamente come, col giusto sostegno, migranti e rifugiati riescano a costruirsi una vita contribuendo al benessere della società dove vivono. Questa storia è un bellissimo esempio di come si sia creato un ponte di pace e amore fra il salvataggio in mare e l’integrazione dopo lo sbarco.
La Comunità di Sant’Egidio ha aiutato Alpha a imparare l’italiano e inserirsi nella comunità ospitante. Alpha sta restituendo l’affetto e la formazione ricevuti facendo il volontario in una casa di riposo con “Genti di Pace”, mentre svolge uno stage come magazziniere. Ascoltarlo parlare in italiano, sentire la sua storia dà la forza e la speranza necessarie per superare incertezze e dubbi. Se per tre anni Moas non fosse stata in mare, oltre 40mila bambini, donne e uomini sarebbero morti nel Mediterraneo Centrale e nell’Egeo. Se non fossimo stati in mare il 20 ottobre 2016, Alpha non avrebbe toccato terra sano e salvo. Se non avessimo aperto due Moas Aid Station in Bangladesh, oltre 80mila pazienti non avrebbero avuto assistenza medicosanitaria.
Se Sant’Egidio non avesse creduto nei nostri stessi valori, non avremmo conosciuto Alpha e la sua storia, né lui avrebbe ricevuto adeguato supporto per integrarsi. È proprio questo che serve: raccontare storie che ribaltino gli stereotipi negativi e superino l’approccio di numeri e statistiche per tenere viva la speranza che ovunque rischia di spegnersi. Ci si chiede quando torneremo in mare, posso solo dire che non abbiamo mai smesso di monitorare le rotte via mare e saremo pronti a intervenire quando avremo le risorse adeguate.
Co-fondatrice e direttrice Moas