Caro direttore,
quando penso all’eutanasia una parte di me aderisce d’impulso alla tesi di Montanelli: «Ritengo che tra i diritti dell’uomo ci sia anche quello di congedarsi dalla vita quando questa sia diventata un calvario di sofferenze senza speranza e, mettendolo alla mercé degli altri, gli abbia tolto anche la possibilità di difendere il proprio pudore, e quindi la propria dignità». Riflettendo, mi accorgo che la questione nasconde profondità da analizzare. Per semplificare, è utile ricorrere a un grafico: una linea orizzontale in cui, all’estremo di destra, poniamo la scritta accanimento terapeutico e, all’estremo di sinistra, suicidio assistito (morte praticata da se stessi sotto la guida di esperti) ed eutanasia (morte indotta direttamente da esperti). L’accanimento terapeutico (detto anche vitalismo medico) è legato all’imperativo ippocratico di far sempre tutto il possibile per prolungare la vita del paziente. Questa posizione, connaturata nella psicologia dei medici, è entrata in crisi con l’evoluzione della medicina che permette di tenere in vita una persona per tempi indefiniti, prolungandone anche le torture, per cui si è compreso che la vita non è sempre un bene e la morte non è sempre il peggiore dei mali.
Anzi, è stata proprio la Chiesa, in un famoso pronunciamento di Pio XII, nel 1957, a porre una relazione di proporzione fra mezzi terapeutici e possibilità di vita. Oggi l’accanimento terapeutico è rifiutato da tutti. Rimangono due posizioni. La tesi dell’eutanasia, secondo cui la morte volontaria è lecita qualora la vita diventa peggiore della morte. E la tesi intermedia, che porremo al centro del grafico, secondo cui l’eutanasia non è mai moralmente ammissibile, perché equivale a un omicidio–suicidio, ma è lecito sospendere cure che configurino un accanimento terapeutico. Quest’ultima è la tesi cattolica. Per i cattolici (ma non solo per essi), l’atteggiamento corretto è quello della medicina “per” la persona e palliativa, basata sull’umanizzazione della morte e sull’accompagnamento dei morenti, attraverso la comprensione e l’affetto, evitando artifici tecnici e lasciando che la natura faccia il suo corso. È stato detto che la Chiesa non parla per l’oggi ma per il domani. E se essa attraverso i suoi documenti continua a gridare «Non licet», ci sono ragioni profonde. L’eutanasia, sostiene Giovanni Paolo II nell’enciclica “Evangelium vitae”, «Comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo… Essa costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte… Si ripropone così la tentazione dell’Eden: diventare come Dio… Si raggiunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire …». Anche in presenza della cosiddetta Carta dell’autodeterminazione stilata dal soggetto, magari in età giovanile e con stato d’animo diverso, se il destino degli anziani è consegnato ad altri, allora «la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca ». Altro che umanizzazione della morte e accompagnamento dei morenti. I segnali sociologici vanno in senso opposto. Oggi, l’80 % della gente muore negli ospedali, in un ambiente affettivamente freddo e impersonale. «Siamo di fronte – continua Giovanni Paolo II – a uno dei sintomi più allarmanti della cultura della morte, che avanza soprattutto nella società del benessere, caratterizzata da una mentalità efficientistica secondo la quale una vita irrimediabilmente inabile non ha più valore».
Luciano Verdone, Teramo
La sua riflessione è interessante e utile, caro professor Verdone. Con una piccola, ma cruciale, sottolineatura aggiuntiva: nutrire e dissetare chi non è più in grado di farlo da solo non è accanimento terapeutico e negare acqua e cibo a chi può riceverli e ne ha bisogno per sopravvivere è inumano e incivile.