Il bilancio, certo. E le nomine. E i trasporti pubblici, le buche nelle strade, la gestione dei rifiuti... L’elenco delle grane della politica capitolina è facile da ricordare anche per chi non è di Roma, non in quanto breve (al contrario, è lunghissimo) ma in quanto annoso. Però a giugno ci sono state le elezioni, le ha vinte a valanga il Movimento 5 Stelle che ora, con Virginia Raggi sindaco (o sindaca, secondo il nuovo corso della Crusca e la definizione ufficiale del Campidoglio), guida una giunta monocolore, mentre nell’Assemblea Capitolina ha una maggioranza schiacciante con 29 consiglieri su 48. Il secondo partito, il Pd, ne conta appena 7. «Oggi si apre una nuova era», annunciava Raggi sul 'Blog delle Stelle' subito dopo l’elezione. Stessa frase diciassette giorni dopo, al debutto in fascia tricolore nell’aula Giulio Cesare. E invece. Invece ieri mattina i romani devono essersi stropicciati gli occhi e le orecchie, leggendo o ascoltando che nella notte era stato revocato il mandato del capo di gabinetto della sindaca, Carla Raineri, e che si era dimesso l’assessore al Bilancio Marcello Minenna. Nel pomeriggio si sono aggiunte le dimissioni del direttore generale e dell’amministratore unico dell’Atac, la municipalizzata del trasporto pubblico, in rotta con la giunta, che seguono a meno di un mese il caos rifiuti e il terremoto ai vertici dell’Ama. E poco dopo anche il nuovo numero uno dell’Ama, arrivato all’inizio di agosto da Milano proprio su indicazione di Minenna, si è fatto da parte. Niente male per essere il principio di una nuova era. In realtà, anche se ancora si tratta soltanto di un assaggio, il sapore ricorda piuttosto quello di una minestra riscaldata. I tempi e le modalità di formazione della giunta, le dispute sulle nomine, i rinvii nell’affrontare la questione dei compensi dei più stretti collaboratori della sindaca, le dimissioni improvvise di elementi di primo piano della squadra, le indiscrezioni sempre più insistenti sui dissidi interni al Movimento, non hanno niente da invidiare a quella che i membri del direttorio 5 Stelle sono soliti chiamare «la politica dei vecchi partiti». Anche se a Roma c’è ormai poco da divertirsi, verrebbe voglia di fare un giochino: prendiamo l’incredibile giornata di ieri e immaginiamo che il sindaco fosse, per non far torto a nessuno a destra e a sinistra, Gianni Alemanno o Ignazio Marino. Che cosa avrebbero detto Di Maio, Di Battista, Fico? Quale sentenza avrebbe emesso Beppe Grillo sul suo blog? A proposito, quella dell’assessore al Bilancio che si dimette (ma dopo quasi un anno, non dopo due mesi) l’avevamo già vista con Marino. Fu l’inizio di una lunga e logorante fine. C’è ovviamente da augurarsi, per il bene di Roma, che la storia non si ripeta. Ma francamente sembra sempre più difficile, anche per il grillino più convinto, cercare di liquidare ogni intoppo come un’invenzione dei giornalisti o una speculazione dei poteri forti. Il problema forse è un altro, ed è interamente politico. Sta nell’'indecisionismo' fin qui dimostrato dalla sindaca. Che senso ha, per esempio, prolungare ancora l’attesa sulla candidatura della città alle Olimpiadi del 2024 o trasmettere alla Regione il progetto per il nuovo stadio della As Roma senza il parere di conformità del Comune? I problemi non si risolvono allontanandoli, ma prendendo decisioni. L’onestà e la trasparenza diamole per buone (anche se la seconda, per la verità, scricchiola già da un po’) e vanno benissimo, perché sono indispensabili nell’amministrazione della cosa pubblica e sappiamo quanto sono mancate nella Capitale. Ma poi bisogna fare. Nella cabina elettorale i romani hanno detto con grande determinazione di voler cambiare, hanno chiesto una svolta autentica. Per Raggi, al ballottaggio, hanno votato quasi in 800mila (più del doppio dei consensi raccolti dal rivale Giachetti) e di certo non sono tutti attivisti o elettori del M5S. Serve subito una scossa per convincerli che non hanno sbagliato e per cercare di rassicurare tutti gli altri.
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