Nel discorso pubblico, come in ogni momento della vita, le parole sono importanti. Hanno un valore e un peso. Se si tratta di personaggi pubblici, addirittura figure istituzionali, l’uso delle parole è ancora più delicato perché vengono diffuse, amplificate, giungono alle orecchie di un pubblico vasto. Queste parole possono influenzare le opinioni pubbliche e spesso sono dette proprio a questo scopo. Per questo lascia perplessi il linguaggio di un importante ministro della Repubblica a proposito di una minoranza variegata presente in Italia da tempo, quella dei rom (mi si perdoni la semplificazione). Parlare, come ha fatto ieri il ministro Salvini, in sorprendente risposta a un efficace intervento del presidente Mattarella che ricordava le persecuzioni subite da questa minoranza a causa delle leggi razziste del 1938, di «30.000 persone che si ostinano a vivere nell’illegalità» definendoli «sacca parassitaria», suona pregiudiziale verso un’intera comunità, oltre che non corrispondente alla realtà.
Forse ci si è dimenticati che la definizione «parassiti» nella storia del Novecento è stata utilizzata per gli ebrei, quando venivano accusati di praticare l’usura. Chi conosce la storia sa che da questa e altre definizioni si è passati a emarginare e poi considerare nemica quella minoranza con le conseguenze tragiche che sappiamo. Fosse soltanto per questo, mentre facciamo memoria degli ottant’anni delle leggi razziste, quest’espressione va bandita quando si parla di persone. Il punto è che stiamo parlando di 150mila persone appartenenti a comunità rom, sinte, camminanti e altre denominazioni, di cui per metà cittadini italiani e buona parte di Paesi comunitari come la Romania e la Bulgaria. Va ricordato il dato più evidente: si tratta di una popolazione molto giovane. Il 35,7% dei rom in Italia ha meno di 15 anni, mentre i loro coetanei non rom in Europa raggiungono soltanto il 15%. C’è poi un altro dato che ridiscute le categorie vecchie con cui si guarda ai rom considerandoli nomadi: l’80% sono ormai stabili. I rom chiedono stabilità.
La Commissione europea nel 2011 delineò quattro assi portanti della politica del continente sui rom: inserimento nel mondo del lavoro, politica di alloggi, accesso alle cure e all’istruzione. Segnano la strada pero una politica di integrazione che si misura sulla realtà e non guarda gli stereotipi o gli antichi pregiudizi. L’integrazione appare l’unica strada per evitare fenomeni di antigitanismo e combattere l’illegalità nel popolo rom. La prima integrazione deve partire dalla scuola poiché più di un terzo della popolazione rom è in età scolare.
Quindi concordiamo con il ministro che si debba fare di tutto perché i bambini rom frequentino la scuola. Chi scrive è impegnato a far sì che questo processo coinvolga il maggior numero di minori rom. Chi scrive conosce anche le difficoltà legate a questa frequenza quando si vive nei campi, in cui spesso mancano acqua e elettricità, l’immondizia non viene raccolta e per i bambini è difficile lavarsi e presentarsi decentemente ai loro compagni di scuola. Tanto si è fatto in questi ultimi anni per garantire una normale frequenza scolastica, ma la soluzione è nel superamento dei campi. È su questo che si deve misurare la politica nazionale e le politiche comunali.
Dove ci sono problemi d’illegalità li si affronti come prevede la legge, soprattutto quando dell’illegalità sono vittime i minori. Quella rom è una questione di lungo periodo, che la politica nazionale e locale hanno spesso rinviato. Laddove lo si è fatto, la situazione è radicalmente cambiata. Non mancano gli esempi positivi di integrazione in grandi città come Torino e Milano. È ora di superare la logica dell’emergenza e dei campi, affrontando da grande Paese europeo un problema che tocca un numero molto limitato di persone. Che sono tutte importanti, come ogni altro cittadino.