Ritrovare la linea della coscienza non perdere il senso dell’umanità
sabato 4 marzo 2023

Gentile direttore,
un’altra strage di migranti, questa volta letteralmente di fronte alle coste italiane. E così, mentre si avvicina il decimo anniversario del naufragio al largo di Lampedusa che il 3 ottobre del 2013 causò 328 morti, siamo costretti a ripetere parole di cordoglio e di denuncia che, col tempo, rischiano di perdere il loro senso.

È come se, di fronte alla serialità delle tragedie, la nostra coscienza si fosse narcotizzata e abbia accettato che si possa morire di immigrazione. Ormai non funziona più neanche la retorica di chi afferma “mai più”: di chi usa parole solenni e impegnative per dichiarare che mai più vedremo donne e bambini, giovani ed adulti morire perché caricati come pacchi o pesci su barconi fatiscenti, pilotati da trafficanti senza scrupoli. In questi dieci anni, abbiamo capito che in assenza di una svolta radicale nelle politiche di immigrazione, le immagini dei corpi straziati sulla spiaggia non appartengono a nostro passato, ma al nostro futuro. Di più: in questa occasione alcune frasi liquidatorie e sommarie sulla responsabilità delle stragi in mare ci danno la misura di un arretramento della linea della coscienza.

Che cos’è la linea della coscienza? È quella che, di fronte una tragedia o a un fatto eccezionale, sospende il giudizio, esprime empatia e cerca di avviare un ragionamento per capire la portata di quello che è accaduto. La linea della coscienza impone un momento di silenzio, di cordoglio, di interrogazione su quello che abbiamo sbagliato e su come si possa porre rimedio. Non è accaduto e ci ha addolorato e stupito ascoltare da parte di autorità di governo parole cariche di aggressività nei confronti di chi, spinto da fame, guerre e insicurezza, decide di affidare la vita sua e della sua famiglia, a un barcone fatiscente. Il corollario, irrealistico quanto cinico, è che – semplicemente – i migranti e i richiedenti asilo non debbano partire: è questa la lezione che si pretende di impartire a persone sfinite, disperate, ricattate, disumanizzate da anni in un campo profughi, di prostituzione forzata, di violenze arbitrarie e talvolta anche di torture.

Aggredire con queste affermazioni i morti se i sopravvissuti a una strage, magari per ammonire chi spera in un viaggio della disperazione, significa ignorare la linea della coscienza tracciata dai princìpi umanitari sottoscritti anche dal nostro Paese, dalla norma secondo la quale «lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo » (art. 10 della Costituzione), dal semplice sentimento di pietà nei confronti della morte. Tra le vittime della strage nel Crotonese ci sono iraniani, afghani, somali, siriani, e non è ammissibile che autorità di governo ignorino che cosa si viva in questi Paesi. Se questo governo, come quelli precedenti, ha avuto il merito di varare e sostenere – primi in Europa – i “corridoi umanitari” e di coinvolgere la società civile in progetti coordinati di accoglienza e integrazione, questo non bilancia né giustifica l’adozione di misure ostili a chi collabora alle azioni di ricerca e soccorso in mare come da anni e talora in piena collaborazione con le forze dello Stato hanno fatto le Ong; né l’espressione di giudizi sommari e brutali nei confronti di chi sta cercando di salvare la vita e la dignità della propria famiglia e di sé stessi.

Né rende più tollerabile la condizione delle migliaia di sbarcati a Lampedusa costretti in spazi eccezionalmente limitati e privi di servizi di accoglienza; né la situazione dei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) ridotti a centri di detenzione. Nei giorni scorsi, a Palermo, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha ammesso che di fronte alla questione migratoria «serve una risposta europea ». È una frase che le istituzioni e la società civile italiana aspettavano da anni. Ma ora serve l’impegno. Non i muri costruiti in Ungheria, non i fantasiosi “blocchi navali” spesso rivendicati da alcune forze politiche, non gli accordi immorali con Paesi che sfruttano i migranti come schiavi che producono un alto rendimento.

Servono progetti. Se si vuole davvero combattere l’immigrazione irregolare, a breve l’unica strategia ammissibile è quella di moltiplicare le vie legali, come i corridoi umanitari, trasformandosi da “buone pratiche” che indicano un esempio a “politiche strutturali” di gestione di flussi migratori legali, ordinati e programmati. Non è cosa da poco, ma è questo che suggeriscono il diritto umanitario e la ragionevolezza politica. In prospettiva c’è anche altro, il famoso e oggi ipocritamente rivendicato “aiuto a casa loro” tramite programmi di cooperazione. Ma oggi “casa loro” brucia, è crollata, è violata da nemici che l’hanno occupata. E questa è l’agenda di domani. Oggi c’è l’urgenza del soccorso a chi fugge e cerca protezione. C’è anche la necessità di non superare quella linea della coscienza oltre la quale si perde il senso dell’umanità.

Pastore valdese, presidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia

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