Ripartire dalla madre (e ritrovare il padre)
sabato 13 maggio 2017

La libertà di noi moderni tende a costruirsi su una doppia uccisione simbolica: quella di Dio padre e quella della Madre terra. Così si esprimeva più di mezzo secolo fa la filosofa Hannah Arendt. Della prima molto è già stato scritto. Dalla terra si vuole evadere, per conquistare lo spazio; ma soprattutto si vuole approfittarne, sfruttandola come materia a nostra completa disposizione.
Insomma, la libertà moderna si afferma negando il fatto che noi siamo “figli di”, che non ci siamo fatti da soli, e che questo ha delle implicazioni. Di rispetto, di gratitudine, di fratellanza. Di senso del limite. Chissà cosa direbbe Arendt oggi, di fronte al programma determinato di smontare e rendere pleonastica la funzione materna. Proprio lei che aveva fatto dell’idea di “natalità”, il fondamento della libertà!

Forse il giorno della festa della mamma è un’occasione per fermarsi a riflettere sul suo significato, anziché lasciarsi prendere dalle forme di consumo che hanno banalizzato questa ricorrenza. Il rapporto tra maternità e libertà è tutt’altro che scontato.
In molte culture tradizionali la donna è identificata totalmente con la funzione riproduttiva (tota mulier in utero), resa possesso dell’uomo oltre che privata della sua integrità personale. Il femminismo radicale, per reagire alle forme persistenti di oppressione, ha fatto coincidere la rivendicazione della libertà con la negazione della funzione materna (tota mulier sine utero). Oggi, con l’idea di fabbricare la vita, anche attraverso la maternità surrogata, si arriva a uno smembramento del corpo femminile nuovamente ridotto a funzione (uterus sine muliere), senza nemmeno più il rapporto col bambino. La parabola della liberazione si avvita su se stessa, prefigurando nuove forme di schiavitù, ancora più inquietanti di quella della società paternalistica. E questa volta la contestazione diventa molto più difficile, perché la retorica della libertà avvolge ogni cosa, neutralizzando a priori la possibilità di critica, vista come un voler porre limiti alla libertà.

La produzione di viventi, ultima frontiera del sistema tecno-economico, mira a rendere pleonastico il codice materno della generazione-rigenerazione. L’uomo fabbrica, mentre la donna genera. Smontare questa differenza in nome del diritto individuale alla genitorialità è impoverire il mondo attraverso l’ennesima prevaricazione violenta nei confronti della donna. Il codice materno, nella sua tensione vitale tra comunione intima e differenza, tra condivisione totale – di sangue e fluidi – eppure rinuncia al possesso, è esemplare nella sua capacità di aprire una via più umana per abitare il mondo. Via fatta di dono reale di sé per l’altro.
Perché il dono non si può comprare, o si chiama in altro modo: contratto. Dove una delle due parti, nella società della retorica dell’uguaglianza, è schiava dell’altra, o merce.

E non è solo una questione privata. Se si riparte dalla madre, forse la società può fare un passo fuori dalla crisi mondiale che è insieme economica, politica e simbolica. Non è utopistico pensare a un contributo anche politico delle madri alla “democratizzazione della democrazia”, oltre l’astratto regime delle equivalenze o l’idolatria maschile dell’onnipotenza che produce guerra e conflitto sociale.

Quando cerca di definire che cos’è la responsabilità, il filosofo Emmanuel Lévinas propone proprio l’immagine del “portare l’altro”: la maternità come figura concreta dell’etica. Il corpo della donna è il primo ambiente dell’essere umano, luogo di ospitalità fisica e psichica. Tempio della pulsione di vita, scena inaugurale di una umanità nuova.

Alleanza che non si chiude nell’io-tu ma include il padre, le generazioni di ieri e quelle di domani. Madre è crocevia di destini, termine relazionale per eccellenza, identità insieme piena e definita da altri. Libertà di accettare l’altro nella sua alterità e farsi rimettere al mondo da questo incontro che sorprende. Violentare questo mistero della vita, trasformare la maternità nella fabbricazione di bambini ridurre la donna a individuo senza legami è condannarsi a “inciampare in se stessi, aggrovigliarsi nella nostra ombra”, come ha scritto Maria Zambrano. E non è un caso che le società che non fanno figli ma vogliono fabbricare esseri viventi siano così poco ospitali.

“Maggio” viene dal sanscrito mahi, che significa la grande madre, la Terra. In tutte le culture è il mese della fioritura, dello sbocciare, della vita che esplode e ci trascina con sé. È il tempo dove si celebra quell’evento miracoloso e sacro che è la maternità, paradigma di ogni relazione etica. Privarci di questa esperienza non penalizza solo le donne, ma tutta l’umanità.

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