N el 2012, Stefano Bizzotto pubblicò un libro dal titolo
Che tuffo, la vita! , in cui Tania Cagnotto raccontava il suo sentirsi privilegiata, fortunata. Raccontava di grandi sacrifici vissuti con quella leggerezza che Italo Calvino descriveva nelle sue
Lezioni americane: «Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore». Tania Cagnotto plana sull’acqua, dall’alto di un trampolino, da tanti anni. L’ha sempre fatto con serenità, forte di una ferrea volontà di difendere anche la sua vita privata. Ha dichiarato, con onestà: «Vorrei guadagnare di più, certo, ma solo restando nell’ambito dello sport che pratico». All’uscita di quel libro, che precedeva i Giochi di Londra, dichiarò testualmente: «Nella mia vita avrò fatto duecentomila tuffi, ma il più bello deve ancora venire. Continuerà dopo Londra, un anno, magari due, ma non chiedetemi di arrivare alla quinta Olimpiade. A Rio ci andrò da turista o commentatrice, ma sicuramente non da atleta». Io ero a Londra nell’agosto del 2012 insieme a lei. Stessa palazzina, stesse strade da percorre per andare ad allenarsi, stessa mensa, stesse emozioni ogni giorno. Io ero alla guida della nostra squadra nazionale maschile di pallavolo. Noi vincemmo una meravigliosa, rocambolesca e inaspettata medaglia di bronzo, mentre Tania collezionò due quarti posti, la posizione più crudele nel mondo olimpico. La prima 'medaglia di legno' con la compagna di sincro Francesca Dallapè, la seconda nella nella gara individuale. Ricordo ogni istante di quel giorno. Un giudizio, che fece male come uno squarcio nell’anima. Per un voto complessivo di 20 centesimi inferiore rimase ai piedi del podio a favore della messicana Sanchez Loto. Ricordo il gusto amarissimo delle sue lacrime, che si confondevano con l’acqua dolce della piscina. Ricordo la sensazione di ingiustizia, di rabbia. Come se tutto fosse finito lì. Incrociandola al Villaggio Olimpico avrei voluto costruire con le mie stesse mani una medaglia per Tania e mettergliela al collo. Sono passati quattro anni. Lei, che non doveva esserci, sarà a Rio da atleta dopo una serie di successi straordinari. Io, che ero convinto di portare la mia squadra in Sudamerica per rincorrere il più grande dei sogni, sarò a casa a guardare. La vita fa percorsi strani, qualche volta estremamente lineari, altre volte tortuosi. Il mio augurio, a tutta la delegazione azzurra, è quello di renderci ancora una volta orgogliosi del nostro tricolore. Spero lo faccia anche quella squadra nazionale che ho guidato dalla panchina 134 volte e che ho lasciato, con un dolore che ancora è vivo, dieci mesi fa. Tuttavia, nessuno si offenda, ho un desiderio grande: vedere Tania sul podio. Desidero vedere Tania volare, come volò Juri Chechi ad Atlanta nel 1996, con un esercizio perfetto, armonico, con quella smisurata forza di volontà, costruita in ogni singolo giorno di quattro anni di attesa, che è in grado di controllare ogni muscolo, ogni tendine, ogni articolazione. Jury riuscì in un’impresa storica dopo l’amarezza del grande infortunio a pochi giorni dalla partenza, quattro anni prima, per Barcellona. Mi auguro che per Tania possa valere la stessa motivazione, la stessa voglia di rivalsa contro una grande, gigantesca delusione. Perché ogni muscolo si può controllare e allenare, tranne uno: il cuore. Per quello serve un immenso desiderio, una sorta di nostalgia senza fine. Alla sua quinta Olimpiade, c’è un lavoro da finire per Tania e attraverso di lei, se mi è permesso, c’è un lavoro da finire un po’ anche per me.
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