Rayan e i bambini non rinati dalla terra come dal mare
martedì 8 febbraio 2022

È passata per un attimo l’altra sera sul web la notizia: Rayan è salvo. Straordinario, ho pensato, quel bambino in fondo a un pozzo in Marocco ce l’ha fatta, questa volta non è finita come a Vermicino. E guardavo il video con il piccolo avvolto in una coperta termica, e l’ambulanza che partiva a sirene spiegate. Ma, pochi minuti, e l’annuncio: non ce l’ha fatta, è morto. E allora tutto ciò che avevo visto di quel bambino in cinque giorni, mi è cascato addosso: la foto di quel budello largo trenta centimetri, (perché mai non coperto?), e la folla accorsa, attorno, inarginabile, che pregava. Il fragore delle ruspe che alla luce delle cellule fotoelettriche scavavano rabbiose un tunnel; e il telefonino calato nel pozzo, da cui nelle prime ore Rayan chiamava debolmente la mamma. In quale calvario sei precipitato, bambino. Il mistero del dolore innocente ancora una volta ti si para davanti, incandescente e senza risposta.

Come a Vermicino. Allora avevo vent’anni, e come tutti restai ore davanti alla tv. Constatando con stupore come quell’ansia ci accomunasse: vecchi, giovani, fascisti, compagni, tutti. Quarant’anni e tre figli dopo, mi pare di capire di più. Quanti bambini come Rayan annegano nel Mediterraneo, e ormai sembra cosa normale – poche laconiche righe su neanche tutti i giornali. Come mai invece per Rayan si prega, e non solo in Marocco, si invoca Allah e Gesù, e le immagini da Tamrout esplodono sul web milioni di volte, e arrivano, poi le condoglianze dal governo di Israele e di Macron, oltre che naturalmente le parole di consolazione del Papa? Mi domando se non sia perché quel bambino prigioniero nel fondo della terra, accessibile a stento dalle sonde attraverso un canale strettissimo, non evochi l’immagine di un parto.

Un parto di quelli difficili, in cui qualcosa si mette di traverso, e gridano alla madre: 'Spinga!', e lei spinge con tutte le sue forze, e attorno a lei ci si affanna e si spera, perché il cuore del nascituro batte. E quanto più lungo si fa quel metaforico travaglio, tanto più chi vede si commuove e partecipa, e vorrebbe tanto, vorrebbe davvero che lo sconosciuto bambino rivedesse la luce – vorrebbe che quel bambino nascesse di nuovo. (Non c’è anche in noi, nascosta, una parte che vorrebbe nascere di nuovo? «Come può un uomo rinascere quando è vecchio?», domandava Nicodemo, e ora che invecchio so quanto struggente si può fare, questo desiderio). Non ne sanno niente i ragazzi, come lo ero io al tempo di Vermicino.

Eppure anche per loro quel bambino prigioniero delle tenaglie della terra è un’immagine potente di strazio, ma insieme di ardita speranza. Possibile, che non ci sia un modo per percorrere appena trenta metri? Una distanza ridicola, una distanza incolmabile. Povero bambino. Speriamo che il torpore dello sfinimento lo abbia avvolto in una nebbia. Nelle ultime immagini di una sonda, rannicchiato su se stesso, davvero sembrava un figlio nel grembo della madre. Rayan è morto, come Alfredino a Vermicino. Chiudiamo le notizie da Tamrout mesti, come se anche dentro di noi qualcosa non fosse nato. Eppure qualcosa, in qualcuno, non forse è accaduto? In Rayan abbiamo visto da vicino uno di quei bambini appena di là del Mediterraneo. Uno di quelli, così simili a Rayan, che salgono con i genitori su vecchi gommoni e partono, gli hanno promesso, verso una nuova vita. Ma si fa notte, l’oscurità incute terrore, il mare si alza, nessuno risponde agli SOS.

Quanti, come Rayan, affondano e annegano nell’indifferenza. A Tamrout in questi cinque giorni abbiamo conosciuto un bambino di una povera località del Marocco. Lo abbiamo visto. Da là sotto chiamava la mamma. Era assolutamente, inesorabilmente un bambino. Un bambino come i nostri

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