L’Italia è incalzata dalla pandemia come un corpo unico: nessuno è esentato dal dovere di confrontarsi con una insidia che scuote e destabilizza, sparge angoscia, incertezza, lutti. Dentro questo corpo sociale chiamato tutto insieme a fare i conti con una minaccia senza precedenti, sin dalle prime settimane del braccio di ferro collettivo con il virus si è fatta distinguibile l’azione della Chiesa. A nessuno è sfuggito l’impegno caritativo accanto al popolo crescente dei poveri, delle persone sole, di anziani, disabili, famiglie, profughi. Al loro fianco una presenza capillare, vasta e discreta, eppure impossibile da non scorgere a occhio nudo e limpido. Una trama di iniziative che hanno mostrato un volto di Chiesa familiare agli italiani: quello solidale, generoso, disinteressato, attento al grande mare degli esclusi senza nome. Sotto questo flusso instancabile c’è però molto di più.
Dall’insorgere della grande emergenza fin nel cuore di questa seconda ondata l’opera solidale spontanea e organizzata di parrocchie, diocesi, Caritas, associazioni sta mostrando ancora una volta una passione civile che non viene mai meno quando il corpo ferito del Paese - una sua parte o tutto l’organismo, come adesso - ne avverte il bisogno, e si fa presente sempre esprimendo uno stile inconfondibile.
Ma questo corpo ecclesiale in azione è formato da persone concrete, che stanno confermando nei fatti la loro scelta di vedere il bisogno che c’è e di fare quel che possono per colmarlo di una risposta adeguata, umana e non solo efficiente. Perché lo fanno? Cosa li spinge? E chi sono? Non servono risposte stereotipate, non basta cavarsela pensando che 'in fondo fanno sempre le stesse cose', come fosse una prestazione dovuta che, per il suo ovvio ripetersi, non ha più vero valore. Perché allora qualcosa non torna nell’analisi di chi abitualmente ormai parla dei cattolici italiani come 'gente di poca fede', senza radici né ideali capaci di incidere, sempre più chiusi dentro la prospettiva angusta di uno sguardo corto, oppure ormai indistinguibili dall’indifferentismo di massa, dall’etica iper-individualista, se non proprio immersi nella diffidenza e nel rancore che circola nelle vene della comunità nazionale, loro stessi prime vittime di ideologie che gli dovrebbero rimanere estranee. Stiamo parlando della stessa gente? O la formidabile sfida della pandemia sta mostrando qualcosa di non compreso, e di non visto, dell’anima di chi ancora esprime una presenza cristiana nella società, specie nell’ora in cui ognuno sarebbe indotto a badare semmai alla propria sopravvivenza?
Se fosse vero che i cattolici italiani sono ormai disinteressati, arrendevoli, ininfluenti, ridotti a un mesto gregariato rispetto a progetti altrui, asserviti a questo o quel disegno politico e sociale – è ciò che si sente ripetere da osservatori più o meno autorevoli ogni volta che il discorso scivola sulla presenza dei credenti nella vita del Paese in questo scorcio di storia –, allora come si spiega questo attivismo senza ricerca di gloria, chiaramente privo di ansie di pubblica visibilità e rappresentanza? Semplicemente non avrebbe senso, così come il parlare di una prassi che 'sa di cristiano' ma sarebbe priva di un ideale che la nutre. È una tesi che si smentisce da sé. C’è semmai, al contrario, un moto più vasto che lo spirito di iniziativa dei cristiani nei mesi più oscuri della storia post-bellica ha suscitato mettendo in opera – e a più mani – quell’umanesimo concreto, inseparabile dalla natura profonda del Paese, che resta intimamente cristiano.
Non ne facciamo certo una questione di targhe: conta solo che tutti gli italiani, ben oltre il fuorviante frastuono della cacofonia politica, si sentano davvero accomunati dall’appartenenza a una comunità che soffre e spera insieme, e che soltanto insieme può farcela a non soccombere sotto i colpi di una prova estrema come questa. Ma non è proprio il saper riconoscere collettivamente il bene di tutti anteposto a quello personale l’impronta di un cristianesimo che ancora cammina con il volto di donne e uomini, laici e consacrati, annunciatori tenaci di un mondo sempre nuovo e di società da abitare con piena responsabilità? E la fantasia delle innumerevoli opere di sostegno materiale o di accompagnamento fraterno di solitudini e sofferenze non è forse l’indizio che c’è un apparato sanguigno vivo e operante, tutt’altro che autoreferenziale e, anzi, mai così aperto a tutti? Allora va riconosciuto, al di là di ciò che ognuno agevolmente può vedere nei fatti, che è andata prendendo forma con il passare dei mesi una presenza attiva e responsabile dei cattolici come cittadini vivi, consapevoli, partecipi, capaci di ascoltare, vedere, agire, risolvere, prenderci cura, farsi carico, mettersi al servizio di tutti, con una preferenza per i posti che restano liberi perché nessuno li vuole occupare. Samaritani che si fermano e non teorici della fede che tirano dritto, presi dai fatti loro.
Una prova che dentro queste scelte personali c’è il Vangelo, tutto intero. Fraternità, altroché. Forse «è questo il migliore cattolicesimo italiano», come ha scritto il Consiglio episcopale permanente nel suo 'Messaggio alle comunità cristiane in tempo di pandemia', lettera che esorta a non pensare che questo tribolato autunno sia un «tempo sospeso», un’inutile apnea. I nostri vescovi parlano di ciò che conoscono: non vagheggiano un manipolo di encomiabili superstiti di una stagione di protagonismo, ma vedono un vasto ed eterogeneo popolo «radicato nella fede biblica e proiettato verso le periferie esistenziali, che certo non mancherà di chinarsi verso chi è nel bisogno, in unione con uomini e donne che vivono la solidarietà e la dedizione agli altri». Spalla a spalla con chi fa il bene, senza mai chiedergli chi è. Gente capace di inventarsi davvero tanto per non lasciar sfilacciare reti comunitarie che ci hanno consegnato, da una generazione all’altra, una società unita da qualcosa che vale. Il «migliore cattolicesimo italiano» è qui. È in azione. E la notizia è che non se n’era mai andato.