Era il 26 aprile di quest’anno, il giorno dopo la Festa della Liberazione, quando l’Italia cominciava a intravedere una liberazione (ahinoi illusoria, a quanto pare) dalle restrizioni imposte dall’epidemia di Covid-19. Quel giorno si riunì la cabina di regia Governo-Regioni-Enti locali, la stessa alla quale l’associazione dei Comuni (Anci) ha minacciato di non prendere più parte per protestare contro il Dpcm di domenica sera, che attribuiva ai sindaci la facoltà di chiudere vie o piazze delle proprie città se ritenute a rischio di pericolosi assembramenti di persone. Allora, il 26 aprile, si ragionava di "Fase 2" e della minima riapertura a cui si sarebbe proceduto il 4 maggio. Proprio l’Anci fece precedere quella riunione da una lunga lettera all’esecutivo a nome di tutti i sindaci d’Italia in cui si sollecitava, ragionevolmente, «massima chiarezza e condivisione fra i vari livelli di governo – Comuni, Regioni, Stato – su chi fa che cosa e con quali risorse». In ballo c’era la riapertura delle scuole, poi non avvenuta fino a settembre, il sostegno finanziario al trasporto pubblico locale, la gestione delle gare d’appalto per i lavori pubblici. Ma la chiave di quel documento è proprio nel passaggio relativo ai «vari livelli di governo». In primavera i sindaci ne facevano un punto di forza. Adesso hanno rischiato di ignorare quella diversificazione giuridica e amministrativa, protestando per l’attribuzione di una responsabilità che non ritengono di loro competenza.
Alla fine, nella notte, il riferimento diretto ai sindaci è sparito dal testo del Dpcm, mentre Viminale e Anci fanno sapere che le eventuali decisioni sulle mini "zone rosse" cittadine saranno prese di concerto con i prefetti, ovvero con le autorità che rappresentano il Governo centrale nei territori, nell’ambito dei Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza. Insomma, in un modo o nell’altro, tutto o quasi torna in capo a Roma. Ma quante volte abbiamo ascoltato sindaci di città grandi o piccole rivendicare maggiori poteri e reclamare per l’eccessivo potere di "Roma", compresi coloro che si sono succeduti alla guida della stessa Capitale? Quante richieste a Palazzo Chigi affinché ascolti di più i primi cittadini, massimi conoscitori dei problemi delle loro comunità e quindi i più capaci portatori di soluzioni? E chi altri, ci chiediamo adesso, conosce meglio le vie e le piazze, centro e periferie, della propria città per sapere quali possono trasformarsi, in certi giorni e in determinate ore, in potenziali focolai di contagio?
Torniamo allora per un attimo a quel buio, opprimente periodo tra marzo e aprile, quando assistemmo a una superproduzione di ordinanze comunali che stabilivano piccoli o grandi obblighi o divieti, che si andavano ad aggiungere al lockdown nazionale deciso dal governo centrale.
Ci furono polemiche, anche allora. E si scomodarono illustri esperti di Diritto amministrativo per spiegarci che sì, i sindaci potevano emanare ordinanze ancora più restrittive. Per la precisione, ordinanze «contingibili e urgenti»: lo prevedono gli articoli 50 e 54 del Testo unico degli enti locali, «in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica» oppure «al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana».
In primavera, dunque, eravamo il Paese dei mille campanili e in autunno non lo siamo più? O forse può costare di più adesso, in termini di consenso e di economie cittadine, prendere provvedimenti che incidono su attività commerciali ormai riaperte e frequentate da molti cittadini? Pensiero malizioso, ma non troppo. Qualche giorno fa, a proposito della gran voglia di richiudere le scuole manifestata anche da presidenti di Regione che erano stati tra i più determinati a chiederne la riapertura, abbiamo notato che viviamo in uno strano Paese. Strano e contraddittorio.