Vedi caso: quasi in solitudine, proprio su queste pagine, si è osato titolare «tassare i ricchi non è un’eresia». Nel mentre i giornali espressione di grandi gruppi economici ed editoriali elevavano muri contro il tabù della «patrimoniale». È bastato pronunciare la parola impronunciabile e puntuale è scattata la 'scomunica'.
Intendiamoci, a una discussione laica, cioè razionale e al riparo da pregiudizi, non hanno giovato genesi e metodo della proposta: un estemporaneo emendamento alla legge di bilancio, di fatto già archiviato, avanzato da qualche parlamentare più che altro come segnale politico, per marcare un posizionamento. L’esatto opposto di ciò che sarebbe necessario su una questione seria e complessa, che esige un’accurata elaborazione tecnica, politica, comunicativa. Risultato? Zero. Questione sbrigativamente rimossa per la gioia di un po’ tutti i partiti, refrattari a scelte 'impopolari'.
È indubbio che vi siano problemi. Tra i tanti: l’esigenza di un disegno organico di revisione del sistema tributario, la messa a punto di un’anagrafe patrimoniale, essenziale anche ai fini del contrasto all’evasione, la razionalizzazioneunificazione di spezzoni di tasse sul patrimonio già vigenti (tipo Imu e ritenute sui depositi). Così pure è evidente che la cosa dovrebbe essere persuasivamente spiegata. Se avessimo una classe dirigente e un ceto politico autorevoli non dovrebbe essere difficile convincere i cittadini che è conveniente (oltre che eticamente e socialmente apprezzabile) il trade-off (lo scambio) tra un ragionevole sacrificio richiesto a una esigua minoranza di ricchi non solo a vantaggio dei più poveri, ma anche in cambio di altri e migliori servizi alla persona e alle famiglie. Il cosiddetto welfare (con in testa la sanità universale), la principale conquista del nostro modello sociale europeo.
Anni addietro un economista-umanista come Tommaso Padoa Schioppa fu irriso perché osò sostenere non che è piacevole pagare le tasse, ma che lo si dovrebbe fare con l’animo di chi apprezza il loro nesso con il patto che ci lega a una comunità solidale. Nel mentre altri, dal vertice delle istituzioni, rappresentava il prelievo fiscale con la metafora dello Stato che «mette le mani nelle tasche degli italiani».
Le motivazioni, mai come oggi, sono chiarissime:
1) con il prossimo esaurimento dei sussidi e del blocco dei licenziamenti si prospetta una impennata di povertà e disoccupazione, una situazione sociale drammatica ed esplosiva (si stima che i poveri potrebbero raggiungere i 15 milioni).
2) Allo stato, il nostro sistema tributario si concentra sul lavoro assai più che le rendite da patrimonio (e tertium non datur).
3) In Italia, più che altrove, da decenni si sono dilatate a dismisura le disuguaglianze tra ricchi e poveri e si è interrotta la mobilità sociale.
4) Da tutti gli studi risulta comprovato come a determinare la condizione economico- sociale e le disuguaglianze decisivo sia il patrimonio della famiglia di origine.
5) Solo nell’ultimo anno, a fronte del precipitare di milioni di connazionali nel disagio e nella povertà (ne sono testimoni le Caritas), sono schizzati in alto i risparmi privati di 1.700 miliardi, l’8% in più. Il che attesta che vi è chi può accantonare cospicue risorse, anche se ciò non giova alla ripresa, che necessiterebbe un loro smobilizzo in consumi e investimenti.
Queste considerazioni sono genuinamente laiche, suscettibili di essere considerate, se anche non condivise, da tutti, ai fini della 'vita buona' della società. Che non potrebbe reggere all’urto di una disperazione e di una rabbia sociale di proporzioni quali quelle che si prospettano. Spero tuttavia non suoni fuori luogo un cenno alla sensibilità più specifica dei buoni cristiani. Un tempo si evocavano i 'valori non negoziabili'. Mi domando se, non già la patrimoniale (se il problema è la parola, sostituiamola), ma uno strumento con il quale lo Stato, nell’attuale, drammatica congiuntura, operi uno scatto nella distribuzione tra chi ha molto e chi poco o nulla non abbia a che fare appunto con un principio impegnativo per la coscienza cristiana.
Negli Stati moderni lo strumento princìpe si chiama fisco. Non ci raccontiamo, con enfasi, che la politica è una forma della carità? Salvo contentarsi di interpretare la carità come mera assistenza, filantropia, elemosina. Io non dubito che ogni buon cristiano, su base volontaria, trovi il modo di aiutare qualcuno che ha bisogno. Ma c’è anche la politica (tributaria). Per farla breve: se non sarà la patrimoniale (comunque, ripeto, da elaborare come si conviene), sarà un’altra soluzione, ma qualcosa dobbiamo inventarci e soprattutto mettere in atto, non in tempi biblici. Non far nulla sarebbe un peccato di omissione. Chi altri se non i cristiani possono farsi carico delle «attese della povera gente» (La Pira) in un tempo nel quale le destre populiste radicalizzano quelle attese in paure e le sinistre laiche sembrano più sollecite per i diritti civili (individuali) che non per i diritti sociali e del lavoro?