Uomini in fuga, il mondo ne è pieno. Non attratti da un miraggio, ma spinti da una disperazione. Si fa presto a dire che sarebbe meglio che ognuno restasse a casa sua, in pace e sicurezza. I rifugiati sono uomini (e donne e bambini) che nel loro Paese patiscono persecuzione, o vivono nella paura, per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche. A loro il mondo ha dedicato una Convenzione nel 1951, impegnando gli Stati, fra l’altro, a non prendere sanzioni penali, a motivo del loro ingresso o del loro soggiorno illegali, a carico di quei rifugiati che giungono direttamente da un territorio in cui la loro vita o la loro libertà erano minacciate. Già in questo originario principio brilla una sorta di gerarchia delle ragioni di giustizia sopra le formule legalistiche: le une e le altre stanno nel cerchio del diritto, simultanee, e però vita e libertà vincono non per violazione di disciplina, ma per giuridica preminenza.
Più vicino ai nostri anni, nel 2011, l’Unione Europea ha emanato una Direttiva che impegna gli Stati membri ad assicurare ai rifugiati «il pieno rispetto della dignità umana» e il diritto d’asilo. La parola "dignità" è pregnante, nel diritto europeo: essa dà titolo al primo capitolo della "Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea" e compendia una sorta di statuto elementare e insopprimibile degli esseri umani. Il trattamento che ne discende è un corollario coerente.
In Italia, benché se ne parli così poco che par dimenticato (o a bella posta negletto) l’articolo 10 della Costituzione dice che ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni di legge, lo straniero «al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana». Non dunque solo la fuga dalla persecuzione, dalla tortura, dalla guerra; persino la mancanza delle libertà democratiche garantite dalla nostra Costituzione, cioè il ventaglio intero dei diritti umani disegnato dai nostri Padri.
Questo sistema ispirato al soccorso irrinunciabile delle vittime dell’oppressione, così ben scritto, appare oggi contraddetto da una riluttanza che s’è gonfiata in ostilità; ha alzato muri di pietra e di filo spinato, ma non solo: ha costruito maglie fitte di editti e norme e grida e comandi volti a impedire, a ostacolare, a scacciare. Ma ieri la Corte Europea di Giustizia ha dato una sterzata.
C’erano tre rifugiati (un ceceno nella Repubblica Ceca, due africani in Belgio), che avevano commesso reati e subito condanne; per loro c’era il rifiuto o la revoca dell’asilo e della protezione, si profilava l’espulsione e il rimpatrio. Verso un destino pauroso. La risposta di giustizia è stata 'no'. La Corte ha sentenziato che «gli Stati membri non possono allontanare, espellere o estradare uno straniero quando esistono seri e comprovati motivi di ritenere che, nel Paese di destinazione, egli vada incontro a un rischio reale di subire trattamenti proibiti dalla Carta europea», cioè torture o trattamenti inumani o degradanti. La sentenza, emessa dal massimo organo giurisdizionale dell’Unione, ora vincola tutti.
Anche il reo, il condannato che espia la pena, non può diventare uno scarto da riconsegnare ai suoi aguzzini. Perderà quel che perderà, ma non il suo essere uomo, e i diritti dell’uomo. C’è un’ultima pennellata, infatti che ce lo rammenta, e a suo modo sposta di nuovo l’attenzione dal legalismo alla realtà del diritto-giustizia: l’uomo cui è stato revocato lo 'status' (legale) di rifugiato, se in concreto è un fuggiasco per i motivi di persecuzione che abbiamo visto, resta lo stesso un 'rifugiato', e conserva il diritto umano alla 'protezione internazionale' secondo la Carta europea. Prendiamone definitiva nota, difendiamo questa civiltà e siamone all’altezza: è nostra e condivisa col mondo.